Senza interventi sulla governance, falliranno tutti i tentativi di riforma delle pp.aa..

Riprendiamo uno scritto di due anni fa – pubblicato sul n. 1/2020 della rivista dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP) – del prof. Stefano Battini, già presidente della Scuola Nazionale delle Pubblica amministrazione e del consigliere CdC Sergio Gasparrini, già presidente dell’ARAN, i quali, detenendo non solo la dimensione di approccio teorico ai problemi delle amministrazioni pubbliche italiane, ma anche un’esperienza diretta in gangli sensibili della burocrazia, ne offrono una ricostruzione per fasi storiche, dall’epoca liberale agli anni presenti. Troviamo preziosa la narrazione delle vicende occorse nell’ultimo trentennio, dall’inizio della cosiddetta “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego ad oggi. Non sfuggono agli autori gli elementi macro-politici di contesto che hanno influenzato le vicende della legislazione, con particolare riferimento alle crisi economiche/finanziarie e ai conseguenti equilibri instauratisi fra ruoli e poteri della politica, della dirigenza pubblica e del sindacato. Vale qui riproporre la lettura dell’accurata e documentata descrizione di questo periodo storico, alle pagine 11/19; riportiamo solo il titolo delle “tre vittime” di questa fase evolutiva nella quale “con il mantello ideologico di un New Public Management finalmente liberato da ogni residua incrostazione pubblicistica, si consumo’ una decisa politicizzazione e sindacalizzazione del pubblico impiego”:  a) la dirigenza pubblica; b) l’Aran e la contrattazione nazionale collettiva; c) il concorso pubblico.

Nel seguito si tenta di effettuare un piccolo passo avanti rispetto alla descrizione – critica e coraggiosa – dei limiti della riforma degli anni ’90 e trarre conclusioni piu’ crude delle argomentazioni pur chiare degli autori: la burocrazia italiana (non tutta, come hanno dimostrato le vicende del COVID) soffre di squilibri estesi e diffusi a motivo della mai risolta questione dei ruoli e dei poteri delle sue tre componenti strutturali: i vertici politici, la dirigenza e il sindacato. La tematica di fondo della governance – risolta da secoli nella gran parte dei paesi occidentali democratici – va analizzata in un ambito autonomo e prevalente rispetto alle pur necessarie regolazioni delle attività tipiche di un’azienda pubblica, digitalizzazione, semplificazione dei processi,  gestione del personale, concorsi,  valutazione “delle” e “nelle” amministrazioni, formazione, etc. Qualunque regolazione dell’ “agere” va sempre a cadere sull’assetto dei ruoli e dei poteri e ne viene condizionata. In questo senso va respinta l’alternativa sempre riproposta – anche nello scritto – fra approccio “olistico” ai problemi della pa e interventi caso per caso (“col cacciavite” si afferma da qualche parte). Né l’uno né l’altro corno dell’approccio risolverà mai alcunché senza una riflessione finalmente chiara e trasparente sui sottostanti assetti di governance delle pubbliche amministrazioni italiane. Sono necessarie evidentemente ulteriori e più approfondite analisi, ma già oggi i numerosi studi sulla burocrazia italiana concordano sulla dinamica secolare di tali poteri, passata dalla prevalente impostazione liberale/autoritaria degli albori, sopravvissuta quasi intatta fino al terremoto di tangentopoli (monopoli dei poteri di indirizzo e di gestione ai vertici politici, subordinazione ed esecutivita’ della funzione dei dirigenti ed esclusione dei grandi sindacati nazionali dalle dinamiche aziendali pubbliche) all’attuale situazione caratterizzata da: a) persistente preponderanza della “piccola politica” sulle scelte gestionali in teoria assegnate a una dirigenza precarizzata; b) dirigenza pubblica dai poteri manageriali “derubati” sia sul versante dei rapporti coi vertici politici, sia sul versante della gestione finanziaria e del personale;  c) ruolo sindacale che, dall’originaria e intrinseca funzione di tutela dei lavoratori tracima, a livello governativo, nella co-decisione delle regole del gioco e, all’interno degli uffici, nella cogestione del personale. Ma vi è di più: la pressione insistente e continuata della bassa politica e di un sindacato comprensibilmente interessato a preservare/incrementare i margini della propria influenza impediscono di regolare altri due cardini fondamentali per una buona amministrazione pubblica in un paese occidentale: 1) il controllo efficiente del Parlamento sull’andamento delle politiche pubbliche e sulle performance delle amministrazioni; 2) la presenza di un’autorità indipendente, svincolata dalle logiche dei vertici politici, che regoli e coordini la gestione del personale (reclutamenti, assunzioni, mobilità, formazione, carriere) e i sistemi di monitoraggio e valutazione nelle amministrazioni pubbliche.

Alla luce dei suddetti due parametri di riferimento il salto di qualità necessario per conferire efficienza e qualità alla nostra burocrazia avverrà quando, si riscriveranno i provvedimenti legislativi cardine alla luce di tre regole “classiche”: 3) supremazia della politica in ordine all’individuazione degli obiettivi strategici; 4) autonomia, stabilità e responsabilità della dirigenza; 4) ruolo del sindacato centrato sulla tutela e sulle garanzie ai lavoratori, come singoli e come categoria, e sulla contrattazione degli aspetti economici.

Se riflettiamo bene, nel corso dei circa 25 anni dalla riforma Bassanini/D’Antona, sia gli “olisti” che i “cacciavitisti” hanno ragionato e operato sempre sul corpo del decreto legislativo n. 165/2001, da cui un’infinita messe di “novelle” senza alcun cambiamento di fondo: cio’ a motivo del fatto che non sono mai state messe in discussione le aporie di fondo di quel decreto: a) aver preteso di riformare la pubblica amministrazione partendo dal rapporto di lavoro che – avverte da sempre Sabino Cassese –  è un “tema seguace” rispetto a quello principale delle funzioni e della loro organizzazione; b) aver artificiosamente “separato” le funzioni “di organizzazione” assegnata alla potestà esclusiva aziendale da quelle di “gestione del personale” assegnate alla contrattazione sindacale e alla “negoziazione informale dei provvedimenti legislativi”, quando qualunque studentello di economia aziendale deve sapere  che uno degli aspetti cardine della funzione di organizzazione è quello dell’organizzazione delle risorse umane. Se, al contrario, contrattualizzi punti decisivi quali la determinazione dei fabbisogni, la gestione del merito o, surrettiziamente, quella delle carriere introduci elementi di confusione e di cogestione sindacale.

Per altro verso, le funzioni di controllo interno e di valutazione delle performance sono state fin qui regolate in modo tale che esse non producessero alcun effetto significativo nella realtà. Sia l’infelice d.lgs. 286 del lontano 1999 che il decreto lgs 150/2009, al di la’ della miriade di piccoli/grandi errori, non hanno tenuto presente altre tre regole fondamentali: a) che la prima performance da monitorare e valutare non è quella dei singoli e/o degli uffici di un’amministrazione, MA quella attinente ai risultati complessivi (outcome) di quell’amministrazione in quanto tale, effettuati da soggetti esterni. Se non fai questo, cadi inevitabilmente nell’autoreferenzialità. Se poi chiami “Organismi Indipendenti di Valutazione” degli organi INTERNI alle singole amministrazioni, designati dai vertici e da esse retribuiti e ometti di istituire un’autorità indipendente di valutazione di direzione e controllo, stai facendo coscientemente una sterile ”ammuina”; b) che controlli e valutazioni non devono essere artificiosamente “spezzati” in controlli di gestione e controlli contabili: se un abbozzo sterile dei primi viene assegnato al Dipartimento funzione pubblica e l’altra categoria rimane in competenza al MEF la confusione è sovrana. In questo senso la LOLF francese non ha insegnato nulla e in Italia la gestione dei bilanci per missioni e programmi si è affossata sulla tradizionale autorizzazione parlamentare degli importi di bilancio senza alcuna valutazione dei risultati gestionali conseguiti (vedi quigli esiti attuali della legge 196/2009); c) L’ordinamento giuridico del nostro Paese brilla per l’assenza di un organo a disposizione del Parlamento, deputato ai controlli e alla valutazione dell’attuazione delle politiche pubbliche approvate con leggi da parte delle amministrazioni pubbliche destinatarie della loro attuazione. Anche qui il confronto con altre amministrazioni pubbliche democratiche è stridente (vedi qui il funzionamento del GAO del Congresso U.S.A.). E’ riprovevole che il Parlamento rinunci a una vigilanza metodica e organizzata (non le isolate interpellanze e interrogazioni) sulle pubbliche amministrazioni della Repubblica.

In conclusione, si riporta un’affermazione di fondo di Battini e Gasparrini: “non basta studiare la regola, ma occorre guardare all’ amministrazione attraverso la regola; non basta esaminare le norme sul concorso pubblico o sulla contrattazione collettiva per ricavarne le rispettive nozioni giuridiche, ma occorre verificare l’impatto dell’una o dell’altra scelta regolatoria sull’ efficacia (degli oggetti regolati – n.d.a.)”. Tale atteggiamento pragmatico va, aggiungiamo noi, sposato con la verifica di principi cardine di buona amministrazione, ovunque riconosciuti e applicati negli Stati democratici avanzati. Senza un approccio radicalmente diverso all’assetto della governance complessiva della burocrazia italiana i tentativi di innestare nuove regole non avranno successo perché continueranno a “cadere” su un’impalcatura squilibrata. E la riforma delle pp.aa. continuerà a non esserci.

Giuseppe Beato

INAPP_Battini_Gasparrini_Miseria_politiche_pubblico_impiego_Sinappsi_1_2020

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