Un Cassese d’annata: questione amministrativa e questione meridionale.

Sabino Cassese, classe 1935,  fu conosciuto dai piu come esperto di punta della burocrazia italiana nell’anno 1977, in seguito alla pubblicazione dello scritto che riproponiamo qui sotto: “Questione amministrativa e questione meridionale“, edito da Giurffre’. Se ne parlò in seguito un po’ superficialmente come dello scritto in cui si dimostrava che l’alta burocrazia italiana era composta da laureati in discipline giuridiche provenienti dal Mezzogiorno.

In effetti quello scritto ebbe meriti ben superiori, perchè: 1)  smontò con i numeri e l’analisi accurata di fonti storiche qualificate l’idea che la pubblica amministrazione italiana soffrisse di elefantiasi (secondo la terminologia di inizio ‘900); 2) configurò correttamente la  cosiddetta meridionalizzazione della pubblica amministrazione, collocandola nei tempi storici giusti, collocandola nel contesto della cattiva integrazione fra Nord e Sud d’Italia e descrivendone le caratteristiche culturali alla luce delle correnti neo-idealiste crociane dominanti nelle università e nelle scuole del Mezzogiorno d’Italia fino a tutti gli anni ’60.

Il pregiudizio dell'”elefantiasi” della pubblica amministrazione viene smentito nell’anno 1977, a dispetto di antiche e consolidate prese di posizione in materia. Desta sconcerto osservare come intellettuali e politici di schieramenti opposti e in guerra fra loro avessero uniformità di giudizio sulla burocrazia: Luigi Einaudi in una serie di articoli sul Corriere della Sera, per più di un decennio, parlò  di “un esercito crescente senza posa”, “salvezza dalle degenerazioni burocratiche”, “mortifere statizzazioni”, “dilagare dei burocrati”. Gaetano Salvemini si esprimeva così: “ pressioni della burocrazia romana sempre avida di estendere il proprio potere sulla nazione”, “gli impiegati si moltiplicano fino al ridicolo”. Filippo Turati: ”elefantiasi dei servizi”, “inflazione burocratica”, “burocrazia parassitaria, scontenta e ribelle” Claudio Treves: “bisognerebbe dar dentro vigorosamente all’albero mortifero della burocrazia”. Un isolato Francesco Saverio Nitti si affannò ad affermare e dimostrare che “ la burocrazia di Stato in Italia  è cresciuta assai meno che non si creda”, seguito da Alberto De Stefani con “il rapporto fra popolazione e numero d’impiegati nel periodo 1861-1911 si è mantenuto in Italia approssimativamente costante”. Sulla questione dell’”invasione della piccola borghesia intellettuale meridionale” agli impieghi pubblici,  Antonio Gramsci scrisse che Antonio Giolitti aveva “disciplinato” il mezzogiorno con favori al ceto degli “intellettuali” sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni…così lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale diventava invece uno strumento della politica settentrionale. Quale strana sensazione nell’osservare che una tale valutazione coincidesse perfettamente con quella di Benito Mussolini, il quale, nell’anno 1929, nel bocciare le riforme draconiane proposte dall’ex ministro De Stefani, ebbe ad affermare: “Le vostre proposte farebbero diminuire l’assorbimento degli impieghi nello Stato dei diplomati e dei laureati del mezzogiorno con danno…questa gente  è temibilissima, possiede un’istintiva genialità propagandistica che fa presa in ambienti dove le relazioni di parentela e di amicizia hanno grandissimo peso nel creare correnti passionali , rapide a diffondersi e ad imporsi…non vogliamo tirarci addosso un’insurrezione” .

Le critiche – autorevolissime – dall’esterno, contrapposte alle rivendicazioni corporative di chi era all’interno (stabilità del posto, carriere, maggiori retribuzioni) inducono a pensare alla solita triste allegoria dei guelfi e dei ghibellini: due opposte compagini accumunate da un unico gravissimo deficit culturale: non avere scienza e coscienza delle funzioni di una burocrazia moderna, del suo essere al servizio del sistema economico e sociale e dei cittadini di uno stato, dell’essere quello del servizio il principio etico fondante dell’agire burocratico.

Erano assenti due riferimenti fondamentali. Il primo di questi è la lezione di Max Weber, semplice e inattaccabile dal punto di vista dei principi: il funzionamento di un’impresa capitalistica moderna si fonda sui principi cardine della razionalità e del calcolo e tale criterio si materializza nelle procedure poste in essere dalle burocrazie, pubbliche e private. “Essa (l’impresa) richiede per la propria esistenza una giustizia e un’amministrazione il cui funzionamento possa almeno in linea di principio venire calcolato razionalmente in base a norme generali – nello stesso modo in cui si calcola la prestazione prevedibile di una macchina”. Il secondo riferimento mancante era che la centralità della funzione burocratica affermata nelle teorie weberiane trova origine e riscontro reale nel funzionamento di tutti gli stati moderni, che curano con attenzione la loro burocrazia; nessuno di questi stati avrebbe mai accumulato ricchezza e potere senza l’esistenza di un’efficiente burocrazia civile e militare.

Cassese dimostrò con i numeri che “l’elefantiasi burocratica” non era mai esistita e che, quindi, i fattori di crisi (e di soluzione) della problematica della pubblica amministrazione italiana andavano ricercati in ambiti diversi da quelli che si traducevano puntualmente in proposte rozze e apodittiche di riduzione delle competenze, delle risorse finanziarie e del personale.

Il radicato buco nero della teoria della “burocrazia male in sé” e della conseguente necessità di ridimensionarne peso e importanza – nonostante il poderoso accrescimento dei compiti del Welfare State e l’insegnamento di Cassese – pesa ancora oggi sull’apparato concettuale  di una parte ingente del ceto politico e intellettuale nostrano. 

Giuseppe Beato

 QUESTIONE AMMINISTRATIVA E QUESTIONE MERIDIONALE

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