Storia di un partigiano bambino: aria di libertà

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Commento di Alfredo Vitaliano al libro “Aria di libertà” di Federico Fornaro.

Quando lo videro arrivare i vecchi partigiani si interrogarono gli uni con gli altri, con uno sguardo: cosa ci faceva un bambino fra di loro? Capirono che alla base dovevano esserci delle motivazioni serie, mature, motivazioni che volevano conoscere, perché forse, la loro clandestinità, le loro azioni, avevano indotto un ragazzino a imitare quella vita fatta di stenti, di fame, di pericoli, di morte. Ma si accorsero man mano che passavano i giorni che quel ragazzino era molto maturo, attento, acute riflessioni provenivano dal suo pensare. Già la scelta del nome di battaglia aveva di rimando fatto comprendere l’anima, certamente provata, di un ragazzino di quattordici anni che non giocava a fare la guerra, ma che faceva la guerra. Quel ragazzino scelse il nome di battaglia più bello della resistenza: Aria, sinonimo di una richiesta intima di aria di libertà. La libertà che era stata abolita da un ventennio di menzogne incominciava sui monti a prendere forma, consistenza. Il volo degli uccelli, l’urlo del vento, il crepitare della pioggia, tutti elementi liberi che si confondevano con le preoccupazioni degli uomini che cercavano di ripristinare la cosa più naturale che al mondo potesse esserci: la libertà. L’arma, qualunque essa fosse, era testimone di questa esigenza. Aria amava cantare Delle belle città data al nemico, l’inno dei partigiani della Benedicta, scritta dal maestro Casalino, detto Cini, e, musicata da Lanfranco, Angelo Rossi, che farà poi parte, finita la guerra, del complesso di Marino Barreto. Scortava Don Berto, il loro prete, altro significato morale di una vita clandestina, era salito anche lui in montagna, senza toccare nessuna arma, se non quella della fede e del suo ministero affinchè la presenza di Dio fosse anche lì non soffermandosi al fatto che quella era una brigata comunista e l’azione di Don Berto veniva rispettata e difesa da quei partigiani comunisti. Aria scortava don Berto indossando un mitra più alto di lui. Furono in sette ad essere catturati dai tedeschi e dalle brigate nere, preparati prima per la fucilazione, poi per l’impiccagione. Aria era il settimo. Quando arrivò il suo turno si chiese come avrebbe fatto ad incontrare Cristo. Improvvisamente fu preso da un tedesco, portato in disparte e massacrato di botte, sia dai tedeschi che dalle brigate nere. Quando fu trasportato nel castello di Silvano d’Orba vide i tedeschi passare con il camion sui corpi dei partigiani impiccati. Nel carcere fu ripetutamente interrogato poiché tedeschi e fascisti cercavano di carpirgli ciò di cui era a conoscenza. Resistette ad ogni attacco violento senza svelare nulla di cui sapeva ed Aria di cose ne sapeva: sapeva tutto l’organigramma della brigata. Attraverso alcune cuoche nel castello-prigione, riuscì a far avere notizie di se alla famiglia. Fu costretto a scavare intorno al castello-prigione insieme ad altri prigionieri fossati difensivi. Poi fu trasferito in un altro castello-prigione in località Pavone, in provincia di Alessandria, e alla richiesta se accettava di andare a lavorare in Germania o rimanere lì, Aria rispose che sarebbe rimasto a Pavone. Nella detenzione Aria riuscì ad intrecciare un dialogo profondo con due ragazze che poi divennero sue amiche: Bianca, sua coetanea e Giovanna un anno più grande di lui. Queste due ragazze di domenica all’uscita dalla messa dovevano passare sotto al carcere dove Aria era detenuto. Fu questo incontro che gli permise di incominciare a pensare alla sua fuga. Giovanna, in seguito, gli svelò che era in contatto con i gruppi della resistenza e si offrì di aiutarlo nel predisporre la sua fuga. Il 23 aprile del 1945 Aria chiese alle guardie di andare in bagno, come sempre, lo mandarono da solo senza alcuna scorta. Fu quello l’inizio della sua fuga, attraversò il prato, ferendosi al volto alle gambe e alle braccia attraversò il filo spinato mentre i militi gli sparavano, superò il muro di cinta e si trovò le due amiche con il cugine di Giovanna che lo aiutò. Fu condotto da un medico che gli iniettò una iniezione di antitetanica. Aria incominciò a respirare di nuovo l’aria di libertà. Difatti sarà insieme agli uomini della brigata Matteotti il 28 aprile del 1945 alla firma della resa dei tedeschi dinnanzi a Luigi Longo e Massimo Girosi. Dal ritorno a casa del partigiano bambino si incominciano ad avere commoventi episodi. La prima fu in famiglia: la sorella Felicina non lo riconobbe subito, ma la madre Margherita udendo la voce del figlio iniziò a urlare a squarciagola il suo nome “Marin” ed egli per tutti, in quell’istante, era ritornato il “Marin di sempre”. Mario Ghiglione, come tutti i partigiani, ritornò alla vita normale senza chiedere nulla a nessuno. Rimase nel profondo della sua anima comunista ma non prese mai la tessera del partito comunista. Nella sua vicenda vi è una parentesi grottesca: riconosciuto partigiano, quando compì gli anni per la leva, fu chiamato ad assolverla e lui non protestò la fece. Il ritorno a Pavone era sempre presente nei suoi pensieri ma lo frenava la notizia che aveva avuto: dopo la sua fuga i tedeschi avevano ucciso un uomo e arrestato una quarantina di civili. Aveva paura, lui Aria di incontrarsi con gli sguardi e, forse, la rabbia di quella gente. Fu la moglie Lisetta, dopo più di dieci anni, a convincerlo a ritornare a Pavone; ritornò con la moglie, la suocera e il primo genito Danilo, a confrontarsi con il passato. L’auto si fermò nei pressi di una casa vicino al Castello, Mario Ghiglione scese, suonò timidamente al cancello di una casa lì vicino. Chiese alla donna che venne ad aprigli il cancello se in casa vi era Sergio. La donna lo guardò per qualche istante e lo riconobbe: quella donna era Giovanna che lo aveva aiutato a fuggire. Fu un tam tam spontaneo e veloce: Aria venne circondato da tutto il paese che lo rimproverò per non essere ritornato per salutarli dopo la fine della guerra. Gli raccontarono che la rappresaglia era dovuta per un’altra azione effettuata dai partigiani, non per la sua fuga. L’abbraccio con la cittadinanza lo riportò ai giorni passati in montagna, quando incominciò ad apprezzare l’aria di libertà che ha il sinonimo anche di solidarietà, di sacrificio e di comprensione. Il partigiano Aria, è deceduto nel 2017.Ora respira la vera Aria di libertà ( commento al libro Aria di libertà di Federico Fornaro).

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