Il Duce e la riforma della PA

Anche Benito Mussolini, duce del fascismo, fu coinvolto nel suo piccolo in una delle tante fallite riforme della nostra burocrazia pubblica. Addirittura nel suo caso egli ne bloccò una sul nascere e comandò di bruciare tutte le copie del progetto scritto nei forni del Poligrafico dello Stato.

Quella riforma prevedeva un deciso sfoltimento del personale che avrebbe colpito quei ceti intellettuali meridionali dei quali nemmeno Antonio Gramsci scriveva un gran bene. Un’autorevolissima testimonianza – vedi qui sotto l’autore – ci narra del giorno in cui, nell’anno 1929, un gruppo di parlamentari gli presentò il testo di una proposta generale. “Mussolini ascoltò motivazioni e proposte, mantenendo un enigmatico silenzio premonitore di tempesta. Avevamo dimenticato di tenerne presenti gli aspetti e le conseguenze politiche; lacuna imperdonabile e gravissima“.

Le vostre proposte farebbero diminuire l’assorbimento negli impieghi dello stato dei diplomati e dei laureati del mezzogiorno con danno del suo plorietariato  in colletto bianco e cravatta. Quella gente è temibilissima; possiede un’istintiva genialità propagandistica che fa presa in ambienti dove le relazioni di parentela e di amicizia hanno grandissimo peso nel creare correnti passionali, rapide a diffondersi e ad imporsi quando siano lievitate dai delusi della borghesia che, nel Sud, conta assai più che a Milano e a Torino. Vi si deve adottare la politica del massimo numero dei posti nella burocrazia dello Stato se non vogliamo tirarci addosso un’insurrezione; quella della fame – dico fame – degli intellettuali, la più difficile a placarsi. D’altronde è anche un dovere il porvi rimedio.

La pensavano così anche miei predecessori, da De Rudinì a Giolitti. Coloro che, per far prevalere la politica della lesina, non tennero presenti gli intellettuali disoccupati del Sud, tra cui vi sono autentici valori, furono politici di secondo ordine, come Sonnino e Luzzatti,  anche se provveduti da altre e pregevolissime doti. Noi siamo dei politici – soprattutto dei politici; abbiamo bisogno di tranquillità per svolgere i nostri programmi per condurre in porto la bonifica integrale che voi de’ Stefani avete portato sul mio tavolo di lavoro. Sembra che ve lo siate dimenticato!“.

Insomma, Mussolini, da politico astuto e avveduto, comprendeva che una riforma severa della pubblica amministrazione avrebbe comportato, nell’assetto nazionale di fine anni ’20, una rivolta del ceto piccolo borghese meridionale. L’estensore di queste memorie non fu una persona qualunque, ma il fascistissimo Alberto De’ Stefani, in un testo ormai introvabile dell’anno 1963: “Una riforma al rogo” – Roma, Giovanni Volpe editore. Egli ha meritato una menzione obbligata in tutti i testi di storia della PA perché, da Ministro del Tesoro, promosse nel 1923 la riforma dei controlli preventivi che posero al centro di tutta la burocrazia ministeriale la Ragioneria Generale dello Stato, collegando gerarchicamente a quest’ultima tutti gli uffici di controllo dei ministeri e rendendola così il vero baricentro dell’amministrazione centrale dello Stato. Ebbene, un cotal personaggio, quarant’anni dopo quella riforma, ebbe a scrivere: “l’efficacia delle riforme amministrative dipende dal sentimento dello Stato e dei propri doveri e cioè da integrazioni etico-psicologiche che non sono di competenza legislativa, ma piuttosto delle classi politiche e dei partiti. Nella letteratura giuridico-amministrativa questo tema è trascurato perchè non le appartiene, essendo di etica politica e non di etica giuridica“. Chi si aspetterebbe mai da de’ Stefani questa considerazione di natura antropologico-culturale?! Eppure c’è molto di vero in essa. Forse è questo uno dei motivi di fondo per cui nel nostro Paese – prevalendo sempre idee e leggi artificiali, schematiche e superficiali –  si conferma sempre l’insegnamento del prof. Guido Melis:  il riformismo amministrativo italiano è una storia di vinti (vedi qui).

Giuseppe Beato

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