Ricordo del prefetto Carlo Mosca

Un ricordo del prefetto Carlo Mosca a un anno dalla scomparsa, a cura di Guido Melis.

“Con grande dolore apprendo della scomparsa in queste ore dell’amico carissimo prefetto e consigliere di Stato Carlo Mosca. Mosca era umanamente una persona straordinaria, e posso testimoniare quanto grande fosse la sua sensibilità e l’attenzione per gli altri, iniziando dai più umili. Siamo stati amici per molti anni, e sempre ho trovato in lui saggezza, gentilezza, affetto.

Si era diplomato alla scuola della Nunziatella, a Napoli, e aveva poi conseguito la laurea studiando a seconda di dove lo portava la carriera, in vari atenei italiani. 

Giovane ufficiale della Polizia stradale era venuto in Sardegna e vi aveva messo su famiglia, vivendo quella che mi diceva era stata la stagione più bella della sua vita. Nella grande famiglia sassarese di cui era entrato a far parte si era profondamente integrato, sino a diventare sardo e sassarese di adozione.

Imboccata la difficile carriera di prefettura era divenuto ben presto per la sua cultura e la sua bravura uno dei migliori prefetti italiani, non a caso collaboratore di ministri importanti (uno era stato Cossiga, col quale aveva anche contratto una bella amicizia personale). 

Io lo conobbi credo nei primi anni ottanta, quando era il responsabile della Scuola superiore dell’Amministrazione civile dell’Interno (la scuola dei prefetti), che diresse in modo esemplare aprendola alla società civile e alla cultura in tutte le sue manifestazioni. Fui in quegli anni, su sua proposta, anche nel Comitato scientifico della Scuola e potei vedere da vicino come nei concorsi interni selezionava e valutava i giovani (e le giovani, giacché uno dei suoi meriti fu di insistere sulla acquisizione di allieve che poi divennero tutte ottime prefetti). 

Intanto si occupava di materie difficili come i servizi segreti e lavorava in commissioni governative ad alto livello, dando prova di rettitudine e moralità assolute. Era quel che si dice (ma bisogna dirlo senza retorica) un vero servitore dello Stato. 

Capo di gabinetto all’Interno con Pisanu e Amato (due ministri di opposto colore politico che entrambi lo stimarono: ma lui diceva sempre che si deve servire lo Stato e non gli uomini e i partiti). 

Nominato prefetto di Roma (io ero allora deputato) si mosse con coraggio sui temi scottanti dell’immigrazione. Ricordo che mi fu di grande aiuto quando io difesi la causa di una piccola comunità romena di un paese della grande periferia romana che non aveva un luogo dove celebrare messa (erano ortodossi, come la maggioranza dei romeni e forse non erano simpatici al vescovo locale che non li aiutava). E lui da quel finissimo diplomatico che era trovò la soluzione del problema. 

Non amava apparire ma la sua azione era sempre efficacissima. Si dovette dimettere da prefetto (fatto inaudito negli annali) perché obbligato altrimenti da un ministro leghista a imporre il rilevamento delle impronte digitali ai bambini rom. Se e andò a casa, semplicemente: mi disse che la sua coscienza di democratico e di credente (era profondamente cattolico) non gli permettevano di restare in carica. 

Più tardi fu chiamato al Consiglio di Stato, dove espletò con lo scrupolo e l’intelligenza consuete la sua opera. 

Viveva tra Roma, Sassari e la sua casa di Golfo Aranci. Due immensi dolori, la perdita della moglie prima, della figlia poi, gli avevano lasciato dentro un fondo di tristezza che a volte traspariva. Ma al tempo stesso era felice di vivere e trovava consolazione nell’affetto profondo per il figlio Davide, giornalista in Sardegna.

In molte occasioni abbiamo poi collaborato strettamente, in particolare nella ricerca sui gabinetti ministeriali (esiste una sua bella intervista nella serie ICAR-Ti racconto la storia) e in una analoga iniziatica Anfaci (l’organizzazione dei prefetti) per raccogliere la memoria dell’istituzione. Ha scritto libri importanti, anche di storia dell’istituto prefettizio. Era il punto di riferimento di tanti buoni funzionari, di tanti giovani alle prime armi, di tante persone che si interessavano della amministrazione e della sua storia.

Ci scrivevamo spesso e ci telefonavamo lungamente. 

L’ultima volta, non sentendolo più da Natale, gli scrissi io un sms il 17 marzo: chiedevo notizie della sua salute, ma con circospezione e prudenza, come tutti facciamo in questi tempi tremendi. 

“Sto come tutti, carissimo – mi rispose – pieno di speranza ma spaventato dalle incognite di questa Pandemia”. Resta, nel nostro epistolario “elettronico”, il suo ultimo messaggio.”

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