Il punto sulle teorie del New Public Management

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Riprendiamo una recensione di Paolo Borioni, apparsa sul Menabò di Eticaeconomia.it dello scorso febbraio 2017 – clicca qui – su un recente volume di Christofer Hood e Ruth Dixon – A Government that Worked Better and Cost Less? Evaluating Three Decades of Reform and Change in UK Central Government  – in ordine a un consuntivo ragionato su tre decadi di applicazione delle teorie del New Public Management in Inghilterra. Sorti inizialmente ai tempi del Governo Thatcher, i principi del NPM si affermarono nel corso degli anni ’80; il concetto di fondo consiste, come noto, nell’introduzione nelle pubbliche amministrazioni di metodi di organizzazione del lavoro  ispirati al modello delle corporation private e/o nell’esternalizzazione a imprese private di servizi pubblici per alleggerire i costi finanziari e ottenere migliori performance gestionali. Tutto girava intorno all’obiettivo di fondo all’epoca sintetizzato da Al Gore: uno Stato che “funzioni meglio e costi meno“.

Inghilterra, Canada e Australia furono fra le prime amministrazioni OCSE a sperimentare i principi del NPM. L’Italia scimmiottò come sempre le esperienze straniere, inventando fra l’altro la concessione di rami di attività pubblica a imprese private detenute da un Ente pubblico: le società partecipate sono la pessima eredità di questa corrente di “pensiero” orientata al “privato è bello” (vedi qui i dati statistici dello scandalo delle società partecipate).

Oggi, a distanza di più di trent’anni quali stessi Paesi che si lanciarono nell’applicazione dei principi dell’esternalizzazione dei servizi pubblici si interrogano attraverso analisi e studi sulla reale efficacia di quei metodi di gestione degli affari pubblici.

A valere sulla sola Inghilterra, la recensione che riproduciamo qui sopra ci racconta che i risultati non sono stati pari alle aspettative. In particolare “nel dibattito pubblico di diversi paesi, è stata spesso messa in dubbio l’effettiva razionalità di un altro pilastro del NPM: la cessione di servizi in gestione, il contracting out, insomma il rapporto fra la PA e le varie entità con cui essa stipula accordi e contratti di servizio per trasferire all’esterno l’assolvimento di molte proprie funzioni“….”Viene comunque confutata la realizzazione delle finalità dichiarate dai sostenitori o costruttori delle riforme attribuibili al NPM“.

In Italia, infine, i bei concetti del NPM furono in qualche modo “interpretati” nel senso di far sorgere la nota e ancora oggi agguerrita scuola della “privatizzazione della pubblica amministrazione“, che vide fra i massimi araldi il compianto Massimo D’Antona (vedi qui un suo scritto dell’anno 1998). Ma quell’impostazione era (e rimane ancora oggi) molto lontana e difforme dai principi del New Public Management applicati in altri paesi OCSE: per questi ultimi – in ossequio alla locuzione stessa (“New PUBLIC Management”), i metodi manageriali dell’organizzazione per processi, della pianificazione delle attività, della misurazione delle performance, della rendicontazione budgetaria furono portati dentro il recinto  della governance pubblica, con regole giuridiche, regime di lavoro e status della dirigenza propri del rapporto e della legislazione speciale del pubblico impiego. In Italia, invece, pure col generoso impegno di molti, si è inteso il NPM nel senso di spostare l’asse della legislazione, del rapporto di lavoro pubblico e dei soggetti gestori di pubbliche funzioni sul regime giuridico del lavoro privato, con risultati in termini di efficienza e di costi delle nostre pubbliche amministrazioni finora catastrofici. Sarebbe ora di prenderne atto…

Giuseppe Beato

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