Stefano Battini: verso un nuovo modello di disciplina della dirigenza e del personale pubblico.

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il professor Stefano Battini, classe 1966, é il nuovo Presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione, nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri nel febbraio ultimo scorso. Egli porterà nel mondo della formazione dei dirigenti e funzionari pubblici la sua non breve e non banale esperienza di studioso, anche come esponente di punta di quella che potremmo chiamare la “scuola cassesiana“, essendo Sabino Cassese un suo punto di riferimento intellettuale forte. il collegamento a Cassese ci pare utile per introdurre e presentare lo studio più aggiornato effettuato da Battini  sull’argomento della dirigenza pubblica e del pubblico impiego.

Si tratta della relazione tenuta  nel settembre dello scorso anno 2016 a Varenna in occasione del 62° Convegno di Studi Amministrativi sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica, poi pubblicata sul sito Giustizia amministrativa del Consiglio di Stato.

E’ sufficiente l‘incipit della relazione per dare il senso del pensiero attuale di Battini: “Le riforme previste dalla legge n. 124 del 2015 in tema di lavoro pubblico intervengono su una disciplina che conosce una fase di profonda crisi, dovuta anche allo smarrimento del paradigma di riferimento, che, come è noto, a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo, è rappresentato dal modello privatistico“. Per continuare con:Il “grande cambiamento” si è trasformato, nel giudizio retrospettivo di Sabino Cassese, in una “grande illusione” (clicca qui sul pezzo di Cassese del 2013 di cui noi di Nuova Etica Publica demmo prontamente conoscenza)……Il profondo mutamento legislativo (intervenuto negli anni 90 del secolo scorso – n.d.r.) ha però faticato a tradursi nell’atteso miglioramento dei rendimenti amministrativi..una lettura plausibile è che sia mancata, soprattutto al livello di singola amministrazione, la figura del datore di lavoro, cioè di un soggetto in grado di interpretare il difficile ruolo dell’imprenditore nel settore pubblico, interessato al rendimento della propria organizzazione e in grado di contrapporsi alla controparte sindacale” ………sul versante dell’autonomia negoziale, il fallimento del modello privatistico si sia registrato soprattutto nella contrattazione integrativa, che sfugge al controllo dell’Aran ed è affidata al “titolare del potere di rappresentanza dell’ente”, che è però di norma il vertice politico dell’amministrazione. Il negoziatore politico si è dimostrato debole e, come hanno sostenuto osservatori acuti e privilegiati, “l’adozione di un sistema di contrattazione collettiva di stampo privatistico, in presenza di elementi di debolezza strutturale delle organizzazioni, ha determinato un’eccessiva apertura alle pressioni e alle rivendicazioni sindacali”

Sul versante dell’autonomia dirigenziale, i managers pubblici sono stati datori di lavoro deboli, soprattutto perché non sono stati valutati in base ai risultati e sono stati invece collegati fiduciariamente al vertice politico……il legislatore, assimilando il dirigente pubblico al dirigente privato, è incorso nella trappola del “falso amico”, ritenendo che lo stesso termine – dirigente – abbia lo stesso significato in due lingue diverse. Ma nel settore pubblico il dirigente non deve essere, come nel privato, l’alter ego dell’imprenditore. Egli deve invece impersonare l’imprenditore stesso, esercitando le funzioni del privato datore di lavoro per diretta attribuzione legislativa, non per delega del vertice politico. Per cui è impropria la relazione fiduciaria con quest’ultimo, che non è affatto il corrispondente dell’imprenditore nel settore pubblico.”

I sistemi di valutazione dei risultati non sono stati attivati, o comunque non hanno ben funzionato, sia per la difficoltà oggettiva di misurare i risultati delle politiche pubbliche, che non si lasciano facilmente catturare da indicatori univoci, sia perché il vertice politico non ha avuto alcun incentivo a sviluppare tali tecniche di gestione, potendo fare largo uso dei propri poteri di apprezzamento discrezionale dell’attività dei dirigenti in sede di rinnovo degli incarichi. La dirigenza, indebolita e fidelizzata, non ha poi saputo esercitare efficacemente i poteri del privato datore di lavoro. Non a torto, le si è rimproverato uno scarso uso sia dei poteri incentivanti, sia dei poteri sanzionatori, in particolare sul piano del mancato esercizio del potere disciplinare”.

In ultimo non manca una critica alla confusa correzione di rotta operata dalla riforma cosiddetta “Brunetta” che, nel tentativo di rimediare ai problemi evidenziati qui sopra, ha “limitato lo spazio negoziale a disposizione dei contratti e, in particolare, ..imbrigliata la contrattazione integrativa con penetranti vincoli e limiti legislativi; si è incrementa la regolazione legislativa di molti profili del rapporto di lavoro, in tema, fra l’altro, di carriera, valutazione, sanzioni disciplinari. Si è parlato, in proposito, di una “privatizzazione senza contrattualizzazione”.

La relazione di Stefano Battini fu scritta nel momento in cui era all’esame del Parlamento lo schema di decreto legislativo di riforma della dirigenza pubblica poi abortito in seguito alla nota sentenza della Corte Costituzionale del successivo novembre 2016 (vedi qui sentenza n 251/2016). Tuttavia sull’argomento il prof. Battini ha confermato successivamente, in un articolo comparso per i tipi delle “Monografie del sole 24 ore”  – La riforma della pubblica Amministrazione: commento alla legge 124/2015 e ai decreti attuativi, a cura di Bernardo G. Mattarella ed Elisa D’Alterio (vedi qui la copertina) i concetti già chiaramente espressi a Varenna:  “Il rischio è quello di innescare meccanismi di political patronage, che potrebbero aggravare una fidelizzazione politica della dirigenza che è già oggi molto pronunciata, per effetto del sistema di libera rinnovabilità degli incarichi temporanei, a totale discrezione del vertice politico”. Più chiaro di così…..Battini, infine, illustra con il necessario equilibrio dello studioso quello che noi possiamo più esplicitamente finire il totale squilibrio della previsione normativa sul licenziamento del dirigente cui sia stato revocato l’incarico “senza aver ricevuto alcuna valutazione negativa” (si vedano le pagine 29 e segg.): le osservazioni  sviluppate (peraltro coincidenti con quelle contenute nel parere reso sulla punto dal Consiglio di Stato- vedi qui) costituiscono giudizio ex post su una norma assurda mai entrata in vigore e monito per chi eventualmente programmasse nel futuro di reiterarla.

Il pensiero di Stefano Battini, in conclusione, ci “restituisce” una valutazione complessivamente negativa sugli esiti del processo di “privatizzazione” dell’impiego pubblico avviato nel corso degli anni ’90 e si colloca in un coro ormai generale di opinioni rese dai più importanti studiosi della pubblica amministrazione italiana (vedi qui fino ad oggi oltre allo stesso Battini, Cassese, Deodato e Talamoil prossimo autore presentato e commentato  sarà Carlo Dell’Aringa), di cui continueremo a dar conto nei prossimi giorni. Lungi dal collocarci in una posizione di mera critica negativa, prendiamo per ora atto che alcune buone riflessioni si stanno oggi orientando verso: a) una riconsiderazione in senso pubblicistico dello status lavorativo del dirigente pubblico (come invano suggerirono proprio i due più antichi fautori della privatizzazione del pubblico impiego: Massimo Severo Giannini e Mario Rusciano); b) la “restituzione” integrale al soggetto pubblico della gestione unilaterale del sistema di valutazione, sulla falsariga del modello federale statunitense (vedi qui la-valutazione-delle-politiche-pubbliche-e-delle-performance nel‘Amministrazione federale U.S.A.).

Giuseppe Beato

 

Stefano Battini – Varenna 2016

 

 

 

 

 

 

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