Il bonus del disonore

I cinque deputati che hanno ricevuto il bonus previsto dal decreto per i possessori di partita IVA possono sembrare degli impostori o dei truffatori. No, in realtà sono molto peggio: sono dei miserabili. Indegni non soltanto della carica alla quale sono stati eletti, ma anche di essere considerati cittadini di questa Repubblica. Che sarà pure sbilenca, che avrà pure tanti difetti, ma non merita tanta miseria civile. Pensare che un parlamentare che guadagna oltre 10mila euro mensili possa chiederne altri 600 destinati a persone bisognose, a lavoratori spesso precari in difficoltà ad arrivare alla fine del mese è vicenda che fa rabbrividire. Abuso tanto più orrendo perché formalmente sembra rientrare nel rispetto formale della legge. Il decreto – varato in tempi di emergenza – non fissava limiti di reddito ai richiedenti. Errore indubbio, ma dettato dal proposito di sveltire l’accettazione delle domande. In questa falla normativa i furbetti del bonus si sono infilati come sciacalli, incuranti del fatto che stavano volontariamente tradendo lo spirito della norma. Le leggi sono fatte per essere osservate da cittadini consapevoli, ai quali spetta il dovere civile di esigere un diritto in ragione di una reale esigenza e non aggirando dolosamente le norme. Questi poveracci sono l’altra faccia di coloro che non pagano le tasse, eludendole con ogni raggiro formale. Sono il “lato oscuro” di una società che nei mesi trascorsi ha fornito prove elevatissime di coraggio, altruismo, dedizione, fino al sacrificio della vita.

In un momento di grande difficoltà economica, in una fase nella quale il Paese deve trovare le spinte ideali necessarie per la ripresa questi cinque deputati pescati con le mani nella marmellata suscitano soprattutto ribrezzo e disgusto. Un parlamentare, proprio perché eletto, dovrebbe sentirsi un custode delle leggi e delle regole che egli stesso ha contribuito ad approvare. Chi legifera deve essere un paladino della legalità, non un traditore delle regole. Il presidente della Camera, Fico, ha chiesto che i deputati che hanno percepito le somme restituiscano il maltolto. Proposta insufficiente: a questi usurpatori di diritti altrui vanno imposte le dimissioni. Il Parlamento, nella sua autonomia e nella sua sovranità, dovrà trovare la soluzione più adeguata contro questo comportamento scandaloso. Le dimissioni di questi presunti “onorevoli” (mai parola suonò più inadatta) dovrebbe essere l’esito scontato in una democrazia.

Intanto sarebbe necessario conoscere i nomi di tali personaggi. Ad oggi l’Inps si trincera dietro lo schermo della privacy, in ciò sostenuto dal Garante per la protezione dei dati personali. Siamo di fronte a una circostanza dai connotati farseschi: la tutela della privacy non può essere anteposta al dovere della trasparenza. Nel caso dei cinque furbetti (e di analoghe vicende che potrebbero emergere) il diritto dei cittadini ad essere informati sul comportamento degli eletti prevale nettamente sul loro diritto alla riservatezza. Negare la possibilità di conoscere i nomi di coloro che si sono così oltraggiosamente fatti burla delle regole basilari dell’etica pubblica e che hanno disonorato il titolo di “onorevole” del quale impropriamente si fregiano sarebbe un ulteriore insulto ai principi della nostra democrazia. Aver percepito dolosamente un aiuto economico destinato soltanto a chi ne aveva reale bisogno ha due effetti devastanti: è un pugno nello stomaco a tutti coloro che osservano le regole; contribuisce a rinfocolare il discredito verso le istituzioni rappresentative. Pericolo, questo, serissimo in vista del referendum sul taglio dei parlamentari. A ben vedere, il punto fondamentale sul quale i cittadini saranno chiamati alle urne non è sul numero dei parlamentari, ma sulla loro qualità.

Stefano Sepe

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