Le generalizzazioni possono causare clamorosi equivoci nella comprensione delle cose. Tuttavia, la classificazione “in blocchi” delle generazioni nate nel secondo dopoguerra ha acquisito negli ultimi anni una popolarità tale da consentire quantomeno un riferimento mentale generalizzato, che consente di collocare con ordine alcuni concetti. Con “Generazione Zeta” si intende ormai dai più i nati fra la metà degli anni ’90 del secolo scorso e il 2010. Come tutte le classificazioni offre un riferimento, ma si può parlare in altro modo di concittadini italiani in età fra i 18 e i 34 anni oggetto di sondaggi e rilevazioni statistiche in ordine all’occupazione, alle condizioni di lavoro e agli atteggiamenti manifesti verso la vita quotidiana. L’unica certezza che si trae è che essi sono profondamente diversi dalle generazioni che li hanno preceduti. Il modello di vita un tempo prevalente, con al centro lo studio, la ricerca di un posto di lavoro, la stabilità dello stesso nell’ottica della costruzione di una famiglia, una solidità finanziaria futura e, infine, la “costruzione” della pensione non è più lo schema di riferimento della generazione Z.
Quanta parte delle evidenze che risultano dai sondaggi più accreditati sono ascrivibili ai modelli culturuali dei nuovi giovani e quanta parte è indotta dalle condizioni economiche, sociali e istituzionali che essi hanno trovato?
Una sintetica ricognizione dei dati può aiutare, solo un poco, a costruire una valutazione “solida” della situazione. Con un focus particolare sui laureati e un confronto fra Italia e altri Paesi europei od OCSE.
Il primo elemento significativo è il fenomeno dei giovani fra i 15 e i 29 anni di età – erano 13 milioni di unità nel 1994, sono oggi meno di 9 milioni – che “non studiano, non lavorano e non cercano lavoro”: i NEET (Not in Education, Employment or Training) sono il 16,1% (dato ISTAT) dei giovani italiani (al livello di Grecia e Bulgaria), a fronte di percentuali del 7% in Germania, Paesi Bassi, Danimarca e del 10-11% in Francia e nel Regno Unito (vedi qui). Impossibile non dedurne cause legate specificamente al funzionamento del nostro “Sistema Paese”.
Restringendo il campo d’indagine al mondo del lavoro, i rilievi sui giovani laureati rilasciano una sensazione di incertezza e di volatilità. L’istituzione più accreditata nel fornire dati con cadenza annuale sulla loro situazione lavorativa è il Consorzio universitario AlmaLaurea – formato da 83 atenei aderenti e riconosciuto dal Ministero dell’Università e Ricerca – che si occupa dell’orientamento alle professioni dei laureati nelle università italiane. Dalla XXVI Indagine 2024 sulla Situazione Occupazionale dei Laureati (vedine qui il testo integrale) si possono trarre spunti preziosi sulle diverse occupazioni lavorative dei giovani a un anno e a cinque anni dalla laurea, i livelli retributivi medi, un confronto con le retribuzioni godute in altri Paesi e la percentuale di giovani laureati che decide di andar via dall’Italia.
Gli stipendi medi mensili netti che percepiscono i giovani laureati (p. 123-136 del rapporto) varia a secondo della laurea posseduta, del genere maschile/femminile, della collocazione territoriale nel Paese. Il livello medio generale a cinque anni dalla laurea magistrale é di 1.768 euro al mese netti, in un arco differenziato che va dai 2.146 euro mensili netti per i laureati in materie informatiche e tecnologiche ai 1.295 euro medi netti per i laureati in materie di educazione e formazione.
Il confronto con le retribuzioni dei laureati trasferiti all’estero è impietoso (p. 41): i laureati occupati all’estero, a un anno dalla laurea, guadagano circa 780 euro in più dei connazionali rimasti in Italia; per i laureati a cinque anni dalla laurea il gap ascende a circa 1000 euro, il 60% in più.
In un mondo sempre più integrato non ne può che discendere un’emorragia di trasferimenti dei laureati italiani all’estero, che coinvolge, peraltro, proprio i possessori dielle professionalità più importanti nel contesto produttivo: le più elevate quote di occupati all’estero (p. 40) sono costituite dai laureati dei gruppi scientifici (8,2% tra gli occupati a un anno dalla laurea e 11,7% tra quelli a cinque anni), informatici e tecnologici ICT (7,9% e 13,7%), linguistico (8,2% e 11,3%, rispettivamente), nonché tra i laureati del gruppo politico-sociale e comunicazione (5,9% e 7,7%) e ingegneria industriale e dell’informazione (5,8% e 10,1%). Il Sole 24ore riferisce il numero di 100.000 i giovani laureati trasferiti all’estero negli anni 2022-2023 e in 134 miliardi di euro la perdita di capitale umano (vedi qui l’esame, regione per regione).
Altamente significativo risulta anche il dato relativo alle differenze percentuali di scelta di un lavoro pubblico o privato (p. 109/111 del rapporto). Ben il 42,1% dei laureati di primo livello risulta occupato nel settore pubblico a cinque anni dal conseguimento della laurea.
Qual è la condizione lavorativa di un giovane laureato che ha trovato lavoro in una pubblica amministrazione?
Ferma l’impossibilità di generalizzare situazioni affatto diverse in amministrazioni pubbliche sparse su tutto il territorio nazionale, con profili e compiti istituzionali differenziati, tuttavia rimangono significativi i risultati di un’indagine effetuata sull’amministrazione italiana che occupa il maggior numero di dipendenti pubblici: la scuola. Qui, a valere sulla componente amministrativa degli addetti sparsi in tutta Italia (circa 196.000), un recente studio promosso dall’associazione sindacale ANQUAP (Associazione Nazionale Quadri delle Amministrazioni Pubbliche) e condotto dall’Università LUMSA (vedila qui in versione integrale) ha evidenziato circostanze assolutamente allarmanti sulla dimensione materiale ed emotiva in cui il personale amministrativo apicale della Scuola italiana (ma non solo) si sente coinvolto. Lo studio, basato su interviste erogate a un campione rappresentativo dell’universo indagato, enuncia i seguenti risultati:
- l’85% del personale amministrativo apicale delle istituzioni scolastiche lavora quotidianamente a ritmi molto elevati;
- il 99% gestisce compiti che richiedono attenzione costante e un ‘problem solving’ continuo, spesso in solitudine;
- il 97% ritiene la retribuzione inadeguata;
- l’83% è in tensione permanente per le responsabilità e le decisioni complesse che ricadono sul loro ruolo;
- l’80% del campione percepisce il lavoro come stancante sul piano emotivo e il 68% dichiara disagio emotivo legato a frustrazione, rabbia e ansia.
- oltre la metà del personale di più alto profilo ha smesso di provare entusiasmo per il proprio lavoro e non si sente più parte attiva del sistema scolastico. Per il 54% dei direttori dei servizi amministrativi il lavoro esaurisce le energie personali, mentre il 51% afferma che il tempo dedicato al lavoro ha un effetto negativo sulla propria vita privata;
- solo il 4% consiglierebbe questo lavoro ad altri;
- il 66% sta valutando di cambiare lavoro.
Non esiste più la vecchia panacea del “posto fisso”: la Generazione Zeta e quelle immediatamente precedenti sono a disagio nelle condizioni lavorative e retributive offerte dal mondo del lavoro italiano e non intendono dedicare la propria vita lavorativa all’esercizio di una funzione pubblica. Sono sempre più frequenti le informazioni di fonte sindacale che raccontano di giovani laureati che non prendono servizio dopo aver vinto un concorso pubblico o danno le dimissioni poco tempo dopo l’assunzione.
In generale emerge una situazione d’incertezza, di disaffezione e di fuga generalizzata dal mondo istituzionale e produttivo del nostro Paese. Ce n’è abbastanza per individuare le problematiche dei giovani della Generazione ZETA come sintomo ed effetto di una crisi nazionale, che potrebbe rivelarsi fatale se non affrontata dai ceti politici, sindacali e intellettuali.
Giuseppe Beato