Il Coronavirus e la burocrazia italiana

IL CORONAVIRUS E LA BUROCRAZIA ITALIANA

Un’analisi dei mali della nostra burocrazia

di Giuseppe Beato

I giornali engage’, templi del pensiero del ceto dirigente imprenditoriale e professionale, ma anche genericamente  intellettuale, traboccano in questi giorni di allarmate riflessioni sulla burocrazia nel nostro Paese.  Fra tutti gli articoli, ci piace dialogare con uno scritto di questi giorni  a cura di Stefano Capaccioli su Econopoly de Il Sole 24ore, a motivo della sua professione di commercialista, circostanza che fa di lui un credibile rappresentante di un’Italia che lavora e rischia di persona (vedi qui il link all’articolo).

E’ solo un articolo, ma crediamo raccolga in sé i giudizi e il sentire comune di una larga parte di opinione pubblica del nostro Paese.

La questione della burocrazia è antica quanto la storia delle società industriali avanzate (ma non solo). Sul suo ruolo fondamentale in uno Stato moderno sarebbe sufficiente rinviare alle pagine immortali di Max Weber (vedi), citate da tutti ma lette da pochi, nelle quali veniva esaurientemente descritta la “consustanzialità” della burocrazia con la razionalità di sistema e l’esigenza primaria di un governo professionale delle materie gestite, elemento determinante del progresso straordinario delle società industriali avanzate dell’Occidente. Ma è perfino superflua la lettura del sociologo tedesco, solo che si osservi il ruolo strategico delle burocrazie in altri Stati che corrispondono da vicino al modello di funzionamento della nostra democrazia: Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia, Svezia, Norvegia e via così.

Solo in un Paese il termine burocrazia è avvertito nella coscienza collettiva con l’accezione totalmente negativa di staticità, inefficienza, malaffare, freno al progresso civile ed economico. Questo Paese è l’Italia. Noi siamo l’unico paese occidentale avanzato nel quale sul conto della burocrazia domina il peso di  osservazioni del tipo di quelle che espone il dr. Capaccioli nel suo articolo.

“Il paese, fuori da tali show televisivi, è chiaramente dominato dalla burocrazia, dato che la classe politica per rinuncia, per convenienza o per insipienza ha oramai abdicato al suo ruolo.

Il politico recita quindi il ruolo di mero portavoce, di attrazione da baraccone con la mascherina (talvolta anche messa male), rassicurante, senza qualità e senza valore, e deve apparire (o meglio essere) mediocre esattamente come l’uomo medio, seguire la massa informe di pensiero, mentre il burocrate comanda, con l’obiettivo di riunire in sé, finalmente, il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, seppellendo per sempre Montesquieu e il suo sorpassato “Lo Spirito delle Leggi”.

 L’impresa è, quindi, letteralmente stritolata dalla Pubblica Amministrazione

 elenchi da allegare, autocertificazioni, carte di identità e liberatorie, foraggiando organizzazioni che non creano alcun valore ma solo poltrone per mantenere il consenso e retribuire una inutile classe politica.

 Forse il virus che rischia di uccidere il nostro paese non è il CoViD19, ma la nostra incapacità di sburocratizzare un paese, ove per qualsiasi cosa c’è l’intervento dello Stato: il tutto senza mai alcuna responsabilità, senza ritegno,

È un momento in cui c’è bisogno di statisti, ma abbiamo solo statali, che il 27 riscuotono, indipendentemente da tutto e da tutti, come i 300 dipendenti assenteisti dell’Azienda Ospedaliera di Crotone, che ci ricordano che il pubblico impiego è formato anche da simili comportamenti, che saranno sempre giustificati, sull’altare del dirittismo italiano (come i 767 Vigili Urbani di Roma Capitale del 31.12.2014) e che fanno da negativo agli operatori sanitari che muoiono da eroi in corsia con turni disumani.”

 La sensazione di rabbia e di sconcerto che provocano queste affermazioni viene supportata dall’esperienza di ciascuno di noi quando si è trattato di richiedere un provvedimento a un’amministrazione pubblica o, peggio ad esempio, quando si sono perse intere mattinate per evitare l’avvio di azioni giudiziarie in relazione a multe vecchie di 4 anni regolarmente pagate.

L’immagine degli impiegati pubblici ne esce a pezzi e a nulla valgono le dichiarazioni del direttore generale dell’Azienda Ospedaliera di Crotone (300 dipendenti assenteisti durante il coronavirus) secondo cui gli altri 1300 dipendenti di quella stessa Azienda erano in servizio  e si sobbarcavano il lavoro degli altri trecento colleghi assenteisti (e che, aggiungiamo noi, 650.000 operatori della pubblica amministrazione italiana sono proprio quelli sanitari che in questi giorni vengono giustamente considerati dei modelli di abnegazione e di eroico comportamento civile). Questi argomenti, tuttavia, non tengono! Un sistema che consente “falle” disciplinari di quelle dimensioni non può essere tollerato da nessuno.

Eppure….

Eppure, nessuno ha voglia di porsi una domanda semplicissima: ma i 3 milioni di impiegati pubblici italiani sono una categoria di cittadini “a parte”? C’è una sorta di selezione del “male civile” che convoglia i “cattivi” verso la burocrazia italiana? Chi afferma questo (politici, giornalisti, intellettuali) accredita come vera la compagna ventennale sui “fannulloni”, sui “nulla facenti”, sui “furbetti del cartellino”. Affermare una cosa del genere significa presupporre che la feccia della società italiana si collochi tutta nelle nostre pubbliche amministrazioni! E’ un espediente malamente retorico, buono solo per convogliare la rabbia della collettività verso qualcuno; ma  non è  supportabile da alcun ragionamento che abbia un qualsivoglia senso.

Razionalità vorrebbe e vuole che l’analisi si incentri sui fattori causali che generano, solo nel nostro Paese, il cancro della mala-burocrazia. Il giudizio secco su chi vi lavora dentro è un modo comodo di affrontare i problemi partendo dalla coda.

Come funziona – questa è la vera domanda –  l’assetto complessivo del sistema pubblico amministrativo italiano? Poniamo qui quattro domandine, cui corrispondono quattro questioni fondamentali di cui si ha poco coraggio di parlare:

  • Quali sono i rapporti fra la burocrazia e i suoi vertici politico-amministrativi? Che potere ha la “burocrazia” di incidere realmente sui processi di lavoro e sulle decisioni (cioè gli atti e i provvedimenti che cittadini e imprese chiedono ma non arrivano mai)?
  • Che ruolo giocano l’inondazione torrenziale di leggi statali e provinciali nell’inefficienza del sistema burocratico?
  • Che ruolo svolge il sindacato nella vita quotidiana delle pubbliche amministrazioni?
  • Perché il sistema nervoso centrale di qualunque organizzazione burocratica moderna, l’informatica, è appaltata da 30 anni a imprese e operatori privati?

Vediamo con ordine.

  1. LA LEGISLAZIONE

Ha ragione il dr.  Capaccioli ad additare lo smodato eccesso di leggi statali (e regionali) come uno dei cancri peggiori nella nostra vita nazionale. E’ di questi giorni la notizia che sul testo del decreto legge “Cura Italia”, enormemente contorto per conto suo, sono stati richiesti e in gran parte approvati circa 1300 emendamenti (vedi). E’ così per tutti i disegni di legge di bilancio e per le incredibili leggi “milleproroghe” che sono  uno sterminato verminaio di piccole disposizioni totalmente scoordinate l’una dall’altra. Queste norme nascono nei riservatissimi meandri dei gabinetti ministeriali e vengono poi “processate” dall’occhiuta valutazione delle Commissioni parlamentari, dove si recepiscono le infinite micro-richieste che vengono rivolte a questo o quel parlamentare da quelle che piace definire col nome di “lobbies o “corporazioni”;  ma è molto meglio descriverle come  un infinito reticolo di micro-interessi di disparati gruppi di pressione che si riversano sul tavolo dei rappresentanti del popolo, i quali ultimi non hanno altra strada che quella di “accontentare” il proprio elettorato di riferimento, riversando sul tavolo degli “emendamenti” i codicilli giuridici a loro suggeriti da questo o quello. Ogni legge costituisce così un enorme sacco di prescrizioni minime, pericolose perché prive di qualunque aggancio a una qualsivoglia visione di sistema. Domanda: quale responsabilità specifica può essere addebitata alle burocrazie di questo Paese per la sgangherata produzione di norme di legge cui si deve dare obbligatoria applicazione? La superfetazione legislativa provoca sconcerto e disorientamento nei funzionari poi chiamati ad orientarsi nella congerie scoordinata di prescrizioni; di qui il riflesso difensivo e la paralisi gestionale al momento di produrre atti concreti. C’è qualcuno che abbia il coraggio e la capacità di studiare come si comportano i parlamenti e le burocrazie degli altri Stati occidentali? Nessuno. Se poi aggiungiamo che gli assetti costituzionali esistenti (titolo V del 2001 in primis) hanno creato un panorama di competenze intrecciate fra organi dello Stato, Regioni, Province, Comuni che porta quasi sempre alla paralisi reciproca nell’adozione di qualsivoglia atto amministrativo, crediamo si possa facilmente concludere sul fatto che questo sia un elemento “tombale” di inefficienza della burocrazia italiana. Questo cancro colpisce direttamente anche i commercialisti, le imprese , i cittadini chiamati ad osservare le leggi. Certo, ma la “burocrazia” non c’entra proprio per nulla! Basterebbe questo argomento da solo.

  1. LA POLITICA

Nel più grande Paese di democrazia d’impresa al mondo, gli Stati Uniti, il ruolo della burocrazia è tenuto nel massimo conto ed è sommamente utile al sistema economico perché regola e controlla il funzionamento del sistema produttivo privato, con l’obiettivo di orientarlo agli interessi generali della collettività dei cittadini e delle imprese. Questo sistema ben funzionante (ma la circostanza vale per tutti gli altri Paesi occidentali avanzati) è il frutto di un oculato equilibrio, sedimentato nei decenni con leggi appropriate, nel quale il ruolo dei vertici politici al governo e quello delle burocrazie giocano in modo coordinato ciascuno il suo ruolo specifico: ai politici il potere e la responsabilità di costruire, orientare e dettare le politiche pubbliche, alla burocrazia il ruolo di eseguirle in autonomia per ciò che riguarda gli atti applicativi specifici, in modo tale che l’imparzialità delle scelte non subisca lo sconfinamento degli interessi di parte, di cui i politici sono i naturali portatori. In Italia? Qui da noi, in barba ai principi costituzionali di imparzialità e di autonomia della funzione  amministrativa, è in vigore dal 1993 (anno di emanazione del decreto legislativo, n. 29) un sistema che, al di là della conclamata separazione fra funzioni politico-amministrative e  funzioni gestionali, consente ai politici (specialmente nei Comuni dove il 30% dei dirigenti sono acquisiti non mediante concorso pubblico, ma ad personam con “contratti di lavoro a tempo determinato”) di imporre un sistema fiduciario di preposizione degli apparati burocratici. “Benissimo”, afferma la congerie dei liberisti in servizio permanete effettivo! Malissimo, diciamo noi:  siamo forti dell’esperienza dei Paesi citati,  nei quali tutta la burocrazia viene selezionata e posta nei luoghi di decisione attraverso concorsi pubblici e preservata dalle incursioni politiche. Quale la differenza? Questa: che se da noi un politico “desidera” che una certa ditta vinca un appalto o quant’altro può “suggerire” senza timore di replica alcuna al dirigente “di fiducia” il nome di quella ditta, con i connessi evidenti probabili risvolti in termini di clientelismo e/o di corruzione; invece, in un sistema burocratico imparziale e professionale (negli Stati Uniti è così e, contrariamente alla generale vulgata italiana, lì lo spoils system è stato abolito 137 anni fa, nel 1883 – veda qui chi desidera approfondire) il funzionario di carriera è in condizioni di fare le sue scelte in autonomia e secondo legge (con salvezza di comportamenti sleali e/o inefficienti che lì ne provocano la rimozione). E’ la burocrazia italiana il soggetto colpevole di questa situazione? Ognuno può rispondere.

  1. IL SINDACATO

I sindacati sono uno dei polmoni fondamentali del funzionamento di un sistema democratico e su questo concetto non è nemmeno lontanamente il caso di derogare; ciò deve essere chiaro in partenza.

Tuttavia, altro è la salvaguardia di un principio dal quale nessuno intende allontanarsi, altro è, invece, la critica spassionata di modi ultronei ed errati di svolgimento di tale funzione cardinale. Senza giri di parole, la presenza sindacale nel pubblico impiego italiano manifesta gravissimi sintomi di sconfinamento da quelle che dovrebbero essere le funzioni di garanzia democratica del sindacato. Principi unanimemente accettati assegnano alle rappresentanze dei lavoratori una funzione di salvaguardia e di garanzia dei lavoratori, che deve svolgersi in forma dialettica, quando non conflittuale, con i soggetti datori di lavoro: nella pubblica amministrazione italiana questa funzione è distorta da circa trent’anni. Le riforme degli anni ’90 –  con i connessi molteplici meandri normativi (vedi qui un’analisi sulla questione) – portarono in prima linea il ruolo dei massimi sindacati italiani nella gestione della burocrazia pubblica: buona la premessa, pessima l’attuazione. Da allora e in forme varie, la presenza del sindacato negli uffici pubblici si è caratterizzata come “cogestione” più o meno occulta. Quale il significato di questa affermazione? Che il sindacato è sovente presente in modo massiccio nelle decisioni – sia strategiche che minute –  che l’Ordinamento dovrebbe assegnare alla responsabilità esclusiva delle amministrazioni pubbliche. Due esempi fra i tanti: la valutazione dei dipendenti è rimessa, per legge, ad una concorde determinazione, quanto ai principi regolativi, della contrattazione sia nazionale che aziendale integrativa: ciò significa che il sindacato entra da protagonista nella predisposizione dei criteri di valutazione del personale e, a valle, ha un ruolo di “asseveratore” degli atti di valutazione effettuati dai dirigenti: da qui le ormai famose premialità al 100%  “a pioggia”, che avviliscono l’idea di merito individuale. Secondo esempio, la gestione delle carriere: le progressioni “orizzontali” e “verticali” dei dipendenti pubblici sono il frutto di criteri contrattati fra amministrazioni e sindacato, che non possono non privilegiare la progressione “a tappeto” svincolata nei fatti concreti dall’apprezzamento del merito dei singoli. Ne sono derivate in questi trent’anni promozioni in massa, svincolate da qualunque collegamento con i profili professionali dei singoli, che hanno portato spesso in posizione di vertice, sia funzionari bravi e dotati che altri dipendenti privi dei minimi requisiti scolastici o accademici. Quanto a dire che la burocrazia italiana paga uno scotto inaccettabile in termini di professionalità impiegate e di selezione del merito. Colpa della “burocrazia”?

  1. L’INFORMATICA E LE ESTERNALIZZAZIONI

Una qualunque organizzazione burocratica, pubblica o privato, oggi non potrebbe sopravvivere senza disporre di strumentazioni informatiche. Il clamoroso cambio di passo dei sistemi economici contemporanei è sintetizzabile per una quota parte preponderante nello sviluppo dell’informatica e della robotica. Una recente indagine dell’Unione Europea e del nostro Dipartimento della Funzione Pubblica stima in 2,6 miliardi di euro circa nel biennio 2016-2017 la spesa ICT nell’amministrazione pubblica italiana .

Gli organismi pubblici – di piccole, medie e grandi dimensioni-  vivono di informazioni e senza di queste non potrebbero operare. Ebbene, chi governa la strategica e centrale funzione informatica nella burocrazia italiana? Risposta: una serie di ditte esterne fornitrici di servizi ICT, rispetto alle quali i funzionari pubblici svolgono il ruolo di semplici utenti, cioè di colui che richiede un servizio, pagando per questo e senza essere in condizione di verificare professionalmente come, quanto e in che modo il servizio richiesto sia stato effettuato. Secondo AGID, Il 74% degli uffici pubblici italianai ha un numero di dipendenti interni operanti sull’ICT non superiore alle 10 unità lavorative. Ciò significa che la funzione più interna di qualunque atto burocratico pubblico è  espropriata dal patrimonio delle professionalità pubbliche e rimessa a tecniche, professionalità, scelte, costi e interessi esterni  dell’azione professionale degli uffici pubblici. E’ così all’Agenzia delle entrate, in INPS, al MEF, nei Comuni grandi e piccoli, dappertutto. La burocrazia pubblica del nostro Paese è stata privata della sua stessa ragion d’essere, cioè del patrimonio di professionalità interne che – Weber insegnava – è il cardine centrale che consente a qualunque burocrazia, pubblica o privata,  di governare se stessa e i propri procedimenti istituzionali.

Questa realtà si chiama esternalizzazione dei servizi e scatta qui, dr. Capaccioli, la solita domanda: è colpa della “burocrazia” italiana, se un coacervo di scelte politiche di decorso ormai trentennale e il concorde interesse di grandi players nazionali e internazionali ha sottratto al soggetto pubblico la possibilità di operare con risorse professionali interne? Al di là dei costi di tutto ciò, un’ amministrazione pubblica non è in condizione né di governare, né di capire, né d’intervenire direttamente e autonomamente quando ciò sia necessario: il recente flop del sistema informatico INPS ne è una prova lampante.

L’esternalizzazione dei servizi pubblici non riguarda solo l’informatica: riguarda anche le funzioni sanitarie, nonché una fetta preponderante di funzioni tecniche che prima erano gestite direttamente dalla mano pubblica. Veda un recente convegno SVIMEZ sul tema della distruzione dei corpi tecnici della pubblica amministrazione.

Non disporre di corpi tecnici professionali al proprio interno significa, dr. Capaccioli, non solo non poter operare autonomamente, ma soprattutto non poter controllare e, in conseguenza, dover esternalizzare anche la funzione di controllo agli stessi soggetti esterni privati che appaltano i servizi pubblici: la gestione dei controlli condotti da Atlantia sulla stabilità del ponte Morandi di Genova è su tutti i giornali.

E’ la burocrazia il colpevole di tutto questo? Oppure i soggetti da chiamare a rispondere sono il ceto politico e rilevanti porzioni di “poteri forti” privati? Riflettiamo!

Sono i quattro sopra descritti i fattori decisivi di disfunzione delle pubbliche amministrazioni italiane, le quali, tuttavia e nonostante tutto, stanno rispondendo con grande dignità e generosità alle necessità connesse all’improvvisa catastrofe in corso.

Ma c’è un quinto argomento, conclusivo dell’analisi che qui si svolge, sui mali della nostra pubblica amministrazione: quello delle MANCATE RIFORME. Il sardo Guido Melis, uno dei massimi storici della Pubblica Amministrazione italiana, tenne una relazione in occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia così denominata: “Il riformismo amministrativo italiano: una storia di vinti” (vedi qui): il testo della relazione esponeva i nodi occlusivi a causa dei quali chi ha tentato nel nostro Paese di introdurre una burocrazia migliore ha fino ad oggi sempre fallito. Le vicende relative alle riforme degli ultimi 40 anni confermano quella diagnosi: nonostante l’impegno di figure di altissimo livello, quali Massimo Severo Giannini, Sabino Cassese e il compianto Massimo D’Antona (che, in perfetta onestà intellettuale, credette e accompagnò il ciclo di riforme sulla contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico) sono cinque o sei ( a seconda del modo di classificazione) le riforme “fallite” negli ultimi 27 anni, fallite nel senso che non hanno liberato la burocrazia italiana da quelle modalità di funzionamento sempre denunciate da tutti.

Sarebbe lungo, ma soprattutto inutile, ripercorrere le tappe di quei percorsi. E’ chiaro invece che quando una riforma non si concretizza – prima nelle regole date, successivamente nei suoi momenti attuativi – è lecito pensare che esista una resilienza tale da prevalere su tutto, anche sulla necessità vitale per un sistema socio-economico moderno come il nostro di dotarsi di un’amministrazione efficiente. La resistenza alle riforme della burocrazia in Italia vince sempre, pur non mancando la possibilità di attingere a esperienze di altri Stati e di adattarle saggiamente alla nostra realtà nazionale. Anche qui i polemisti d’assalto hanno pronta la loro spiegazione: “La burocrazia neutralizza e vanifica sempre le riforme!”. Cioè a dire che tre milioni di cittadini italiani avrebbero la forza politica di resistere alla pressione unanime e congiunta dei restanti 57 milioni di concittadini?

Forse la spiegazione vera è più maliziosa e discende anche qui da una domanda: ma a chi interessa in Italia un’amministrazione efficiente? Esiste un settore significativo della collettività , un ceto o un gruppo di interessi che non si sentirebbe “minacciato” nel proprio agire concreto da una burocrazia efficiente? Per dire, una burocrazia efficiente sarebbe in condizioni di contrastare efficacemente il fenomeno delle evasioni fiscali e questo non può non destare l’allarme degli evasori grandi e piccoli che nascondono i propri redditi; un’amministrazione efficiente sarebbe immune dalle scorribande dei politici sulle questioni gestionali: quindi questa prospettiva non può che intimorire il folto ceto politico nazionale e territoriale che trae forza e consenso dai favori piccoli e grandi resi ai propri “clientes”. Nel piccolo poi, molti di noi si rendono responsabili di piccole evasioni dell’IVA, d’accordo con idraulici, professionisti medici, meccanici, ingegneri: un’amministrazione efficiente si insinuerebbe dentro questi comportamenti anomali; che dire poi dei giochi continui che si fanno dietro le amministrazioni comunali per ottenere una licenza edilizia o un’approvazione di deroghe o esenzioni varie? La categoria dei geometri sarebbe contenta di trovare di fronte a sé funzionari autonomi e autorevoli? Quante famiglie sarebbero disposte ad avere un sistema scolastico pubblico con insegnati autorevoli che valutassero in modo equo e ma non indulgente e superficiale i propri figli?  Ma gli stessi avvocati e i commercialisti, siamo sicuri che non traggano una cospicua parte dei  loro redditi da tante consulenze ai propri assistiti che si rendono necessarie proprio a causa della contraddittorietà e della bassa qualità delle leggi esistenti? Per non escludere nessuno da questa disamina, una fetta non minimale di impiegati pubblici, che vantaggio potrebbero trarre da un’amministrazione seria che valutasse ciascuno in relazione ai meriti e alle performance effettive dimostrate? E le grandi imprese, che vantaggio potrebbero acquisire dalla dissoluzione di un sistema debole che consente loro di fare il bello e il brutto tempo nei rapporti con i vertici politico-amministrativi della burocrazia? Insomma, chi ritiene oggi in questo Paese di poter trarre vantaggi dall’efficienza della Pubblica Amministrazione?  Sarebbe così solo se tutti si ragionasse in termini di prevalenza degli interessi generali del sistema Paese. Si converrà che quest’idea, al di là delle dichiarazioni di facciata, oggi non prevale sulla preoccupazione della salvaguardia del proprio “particulare”.

Idee di cambiamento della pubblica amministrazione italiana ce ne sono a iosa dr. Capaccioli (vedi oggi l’articolo di Sabino Cassese su Il Corriere della Sera) e la speranza è l’ultima a morire. Ma si stenta oggi a vedere qualcuno dei ceti dirigenti di questo Paese realmente interessato ad una sua vera riforma. Si strepita tutti contro la maledetta burocrazia, ma per molti questo è solo un comodo parafulmine per mascherare la nostra coda di paglia e rinviare ad libitum la soluzione dei tanti immani problemi che abbiamo.

Mi abbia suo con il dovuto rispetto.

Roma, 10 aprile 2020

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