Il cinema italiano e il “posto fisso”.

Quo vado

La vacanze natalizie e il tema di questo film di grandissimo successo di pubblico ci inducono a proporre qualche considerazione sul film “Quo vado?”, non fosse altro perché si occupa di due temi centrali nel nostro sito, quali il pubblico impiego e i “vizi” degli Italiani. Il protagonista del film è un impiegato pubblico che accetta tutto, anche un trasferimento ad una postazione scientifica al Polo Nord, pur di salvare il suo posto fisso 

minacciato dall’ennesima “riforma della Pubblica amministrazione”. Gli sceneggiatori, Gennaro Nunziante e lo stesso Checco Zalone, dimostrano di avere ben studiato i “rotismi” tipici della mala amministrazione del nostro Paese: ci costruiscono intorno un tessuto narrativo fatto di battute feroci e spietate, per molti (noi fra questi) veramente esilaranti. Alla fine di questo “orrido” percorso umano in cui è coinvolto l’impiegato pubblico “tipo”, c’è la sua redenzione finale, anche questa tratta dal repertorio delle “cose buone” generalmente attribuite all'”italiano tipo”.

Senza voler entrare più di tanto nel circuito delle “recensioni” su questo film, scatenatosi su tutti i giornali in questi giorni, notiamo solo che il suo schema narrativo entra nei canoni classici della Commedia all’Italiana degli anni ’60 (soprattutto “La grande guerra”, fatte le debite dovute proporzioni): si raccontano le gesta di un tipo umano squallido e meschino, le si collegano palesemente all'”indole nazionale” prevalente, poi alla conclusione si assolve questo stesso personaggio descrivendone un fondo di grandissima umanità, coraggio e generosità. Realtà delle cose o semplice autoassoluzione? Chissà….. Tuttavia, va rimarcata soprattutto una circostanza: lo schema dell'”italiano medio” di cinquant’anni fa rifletteva una realtà in cui i nostri classici difetti – anarchia, individualismo, insofferenza alle regole – accompagnavano – e in qualche modo alimentavano – un periodo di fortissima crescita economica e civile, per cui la nota assolutoria trovava qualche sensato fondamento in quella specifica realtà storica. Oggi – in tempi di depressione economica, di disoccupazione e di sfiducia i noi stessi e nelle nostre capacità di essere comunità viva, ordinata e vitale – quella chiave di lettura risulta alquanto farlocca: cioè a dire che quelle “qualità” che furono benzina negli anni ’60 hanno dimostrato, lungo tutto il corso della cosiddetta “seconda Repubblica”, di essere un freno allo sviluppo e generatrici di confusione generale e corruzione. Per cui, ridiamo pure di noi stessi, ma comprendiamo che le nostre ancestrali “modalità di comportamento pubblico” non funzionano più (semmai hanno qualche volta funzionato) per costruire un posto giusto per i nostri figli. Sarebbe bello che l’ immedesimazione in altri modelli di comportamento – basati sulla moderazione, sul rispetto del prossimo e su una regolata fiducia reciproca – partisse proprio dallo “Stato”, dall’impiego pubblico, da coloro che rappresentano la “comunità nazionale organizzata”: la materia prima c’è, perché il pubblico impiego è pieno di persone che sono l’opposto del “modello Zalone”, innamorate del proprio lavoro e coscienti della funzione pubblica che svolgono. Si tratta di metterli in condizione di essere “massa critica” vincente.

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