Benedetto Croce – Perché non possiamo non dirci “cristiani”

Parlare di Cristianità e di Mondo di questi tempi significa esporsi, non solo alla muta e feroce ostilità dei fanatici, ma anche rischiare il fuoco dei cecchini “laici” o sedicenti tali. Benedetto Croce non fu certo un credente, né tantomeno un intellettuale “progressista” come oggi usa dire: Antonio Gramsci acutamente lo qualificava (insieme a Giustino Fortunato) come il “reazionario più operoso della penisola“, uomo “di grandissima cultura e intelligenza….legato alla cultura europea e quindi mondiale….ha distaccato gli intellettuali del mezzogiorno dalle masse contadine….e li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale“(cit. da “Alcuni temi della questione meridionale” – 1926).

Quale il motivo, allora perché un intellettuale  non credente e liberale-conservatore sentì suo dovere nel 1942 – durante l’infuriare della guerra –  argomentare in uno scritto di 10 pagine sulle radici cristiane del pensiero occidentale e della libertà, pienamente vitali nel mondo contemporaneo? Sicuramente giocava il riferimento alla dottrina filosofica di Hegel che predicava l’Assoluto come traguardo finale del percorso della Ragione; più ancora lo ispirò la necessità impellente di marcare una distanza siderale fra il pensiero laico-liberale e l’etica nazi-fascista che cercava in quel momento di dominare il mondo. Ma c’è una spiegazione più semplice e circostanziata a fondamento del suo scritto: egli ragionò da storico (“non ho scritto niente che non avessi già scritto“), cioè nell’ottica di chi evidenzia il dipanarsi nel tempo dei fatti e porta alla luce il filo di continuità che accomuna una situazione storica con le cose del passato; e in quest’esame “genealogico” è fondamentale comprendere  la trama spirituale che lega un periodo storico a quelli precedenti (o perlomeno questo è il punto di vista degli idealisti e di Max Weber, da cui il pensiero marxista dissente fieramente, peraltro). Dando per archiviate tali vetero-polemiche (incidono nelle vicende storiche sia la “coscienza collettiva” – come la chiamò Emile Durkheim – sia l’impatto delle innovazioni tecnologiche e dei rapporti fra classi sociali) citiamo alcune proposizioni clou dello scritto di Benedetto Croce.

Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta….tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell’arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto”.

La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza,

“la rivoluzione cristiana fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi…….La coscienza morale, all’apparire del cristianesimo, si avvisò, esultò e si travagliò in modi nuovi, tutt’insieme fervida e fiduciosa, col senso del peccato che sempre insidia e col possesso della forza che sempre gli si oppone e sempre lo vince, umile ed alta, …….E il suo affetto fu di amore, amore verso tutti gli uomini, senza distinzione di genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo che è opera di Dio.”

“Furono dunque, nonostante talune  parvenze anticristiane, gli uomini dell’umanesimo e del Rinascimento, che intesero la virtù della poesia e dell’arte e della politica e della vita mondana, rivendicandone la piena umanità contro il sopranaturalismo e l’ascetismo  medievali, e, per certi aspetti, in quanto ampliarono a significato universale le dottrine di Paolo, slegandole dai particolari riferimenti, dalle speranze e dalle aspettazioni del tempo di lui, gli uomini della Riforma; furono i severi fondatori della scienza fisico-matematica della natura, coi ritrovati che suscitarono di mezzi nuovi alla umana civiltà; gli assertori della religione naturale e del diritto naturale e della tolleranza, prodromo delle ulteriori concezioni liberali; gl’illuministi della ragione trionfante, che riformarono la vita sociale e politica, sgombrando quanto  restava del medievale feudalesimo e dei medievali privilegi del clero, e fugando fitte tenebre di superstizioni e di pregiudizi, e accendendo un nuovo ardore e un nuovo entusiasmo pel bene e pel vero e un rinnovato spirito cristiano e umanitario…poi i filosofi, che procurarono di dar forma critica e speculativa all’idea dello Spirito, dal cristianesimo sostituita all’antico oggettivismo, Vico e Kant e Fichte e Hegel, i quali, per diretto o per indiretto, inaugurarono la concezione della realtà come storia, concorrendo a superare il radicalismo degli enciclopedisti con l’idea dello svolgimento e l’astratto libertarismo dei giacobini con l’istituzionale liberalismo, e il loro astratto cosmopolitismo col rispettare e promuovere l’indipendenza e la libertà di tutte le varie e individuate civiltà dei popoli o, come furono chiamati, delle nazionalità…..Né può a niun patto piegarsi al concetto che vi siano cristiani fuori di ogni chiesa, non meno genuini di quelli che vi son dentro, e tanto più intensamente cristiani perché liberi……..sebbene tutta la storia passata confluisca in noi e della storia tutta noi siamo figli, l’etica e la religione antiche furono superate e risolute nell’idea cristiana della coscienza e della ispirazione morale, e nella nuova idea del Dio nel quale siamo, viviamo e ci muoviamo……ci travagliamo pur sempre nel comporre i sempre rinascenti ed aspri e feroci contrasti tra immanenza e trascendenza, tra la morale della coscienza e quella del comando e delle leggi, tra l’eticità e l’utilità, tra la libertà e l’autorità, tra il celeste e il terrestre che sono nell’uomo, e dal riuscire a comporli in questa o quella loro forma singola sorge in noi la gioia e la tranquillità interiore, e dalla consapevolezza di non poterli comporre mai a pieno ed esaurire, il sentimento virile del perpetuo combattente o del perpetuo lavoratore, al quale, e ai figli dei suoi figli, non verrà mai meno la materia del lavoro, cioè della vita…..E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro sempre ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso tra dolore e speranza. E il Dio cristiano è ancora il nostro.”

Buona lettura

(Siamo pienamente coscienti che il mondo, da quel 1942 in cui Croce scrisse queste pagine, ha allungato la sua corsa ed esteso a dismisura la sua capacità di trasformarsi. Tuttavia le “regole d’ingaggio” dell’evoluzione storica restano le stesse e, nel contesto del pensiero teorico, vince sempre chi guarda più lontano. In questo senso continuiamo a reputare più congruo quel pensiero del 1942 rispetto a quello del sedicente seguace di Bertrand Russell, Piergiogio Odifreddi. Egli ha prodotto nell’anno 2007 lo scritto “Perchè non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)“, noto soprattutto perché fa il verso al titolo di Benedetto Croce. Altri ben più importanti di chi scrive (vedi qui le precise argomentazioni di Joseph Ratzinger del 2013) hanno replicato specificamente. Noi ci riserviamo solo lo spazio di una considerazione: uno che ha scritto che il cristianesimo si rivela “una religione di illetterati cretini“, indegna “della razionalità e dell’intelligenza dell’uomo” (vedi qui) assomiglia di più a un inventore di barzellette che a un matematico/logico).

Giuseppe Beato

 Benedetto Croce 1942 – Perché non possiamo non dirci cristiani

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