Massimo Severo Giannini: la voce “pubblico impiego” nell’Enciclopedia del diritto

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E’ con una certa emozione che riproduciamo qui sotto il testo digitalizzato di una voce dell’Enciclopedia del diritto dell’anno 1970, curata da Massimo Severo Giannini (1915- 2000), giurista del quale é superfluo qui fare presentazioni di sorta, salvo il richiamo doveroso al suo famosissimo “Rapporto sui principali problemi dello Stato” (vedi qui) predisposto per il Parlamento nel 1979 in qualità di Ministro della Funzione Pubblica.

Lo scritto che qui riproduciamo – “Pubblico impiego (teoria e storia)”– é citato in  quasi tutti gli studi sull’evoluzione della materia negli ultimi trent’anni, perché occupa un posto fondamentale nella storia del diritto pubblico nel nostro Paese: dalle argomentazioni e dalle suggestioni di questo scritto germinarono via, via nel tempo tutte le teorie dottrinarie che hanno promosso l’immissione nel nostro Ordinamento giuridico della cosiddetta  privatizzazione dell’impiego pubblico, volendo con questa locuzione sommariamente indicare un regime di omologazione/assimilazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici a quello comune dei lavoratori privati.

La natura di “primum movens” delle osservazioni condotte dal Giannini in questo celebre scritto venne riconosciuta per primo, trent’anni dopo, proprio da Mario Rusciano che con il suo “L’impiego pubblico in Italia” edito dal Mulino nel 1978 fu il teorizzatore ufficiale della necessità di regolare il rapporto di lavoro pubblico basandosi sulle disposizioni comuni del codice civile e sui contratti di lavoro. Rusciano riconobbe a Giannini la primogenitura di quelle idee, nel contesto di una serie di articoli a lui dedicati dalla “Rivista trimestrale di diritto pubblico” n. 4 dell’anno 2000 in occasione della sua morte: si veda la sua ricostruzione precisa e appassionata del percorso intellettuale del Giannini sul punto: clicca qui di Mario Rusciano: Giannini-e-i-rapporti-di-pubblico-impiego.

Il richiamo che qui effettuiamo ai tre testi base per la comprensione dell’iter storico/culturale che ha portato alla cosiddetta privatizzazione del rapporto di pubblico impiego potrebbe e dovrebbe esimerci dal proseguire oltre nella trattazione.

Tuttavia, pur nella devozione e rispetto che si deve a una figura carismatica quale quella di Giannini, l’amore (e il gusto) per un approccio critico e libero ai problemi  ci tentano vivamente. Ci permettiamo quindi, nel rispetto della memoria di Giannini  – e non ringraziandolo mai abbastanza per le preziosissime  osservazioni in ordine alla necessità di utilizzare modalità manageriali tratte dall’esperienza imprenditoriale privata nella gestione delle PA (che sono anch’esse diventate cultura comune e condivisa nella parte migliore degli operatori pubblici) – di osservare quanto segue in ordine a quella sua voce famosissima sull’Enciclopedia del diritto:

1. Egli esaminò l’evoluzione del diritto positivo del pubblico impiego dalle “riforme Ranelletti” dell’anno 1926 al giorno in cui scriveva (con qualche accento di malcelata ironia – “non perché questo sia più pregevole (tutt’altro)” pag. 296) scandendone i tratti fondamentali : a) la scelta delle persone si fa mediante concorso pubblico; b) il rapporto di impiego inizia con un atto di nomina; c) un sistema rigido di avanzamenti, che contempla una presenza minima in ciascuna qualifica; d) minuta regolazione dei “fatti modificativi” del rapporto (aspettative, congedi, distacchi, comandi, missioni); e) l’esercizio di mansioni superiori non comporta il passaggio alla diversa qualifica; f) un sistema disciplinare rigido e minutamente regolato; g) il rapporto si estingue solo con l’avverarsi di eventi stabiliti dalle norme; h) la misura delle retribuzioni fissata con norme; i) conferimento della titolarità di un ufficio pienamente discrezionale, ma senza attinenza con lo stato giuridico del dipendente. Sulla base di questa raffigurazione del rapporto di pubblico impiego, il Giannini dedica la parte prevalente del suo scritto ad esaminare la natura giuridica – di diritto comune o di diritto amministrativo? – che deve essere associata all’atto di nomina in primis e in conseguenza a tutti gli atti che caratterizzano il rapporto di pubblico impiego, propendendo chiaramente per una impostazione giuridica che non annoverasse gli atti regolatori del rapporto di lavoro pubblico nella categoria dei “provvedimenti“, perché non costituivano esercizio “di una potestà pubblica, perché qualunque soggetto giuridico ha la potestà di organizzare le proprie attività e di costituirsi un’organizzazione” (pag. 303),

2. nelle considerazioni finali, dopo aver suggerito l’argomento principe per scardinare la natura speciale del rapporto di pubblico impiego (“l’atto di nomina non è un provvedimento“), affermò che era “in corso una convergenza netta tra lo stato giuridico del lavoratore privato e quello del lavoratore pubblico….Anche nei paesi aventi una tradizione di stato giuridico particolare dei dipendenti pubblici è ormai molto difficile dire quale sia la differenza tra i due tipi di rapporti……E’ quindi molto probabile che con l’ulteriore avvicinamento dei due tipi di rapporto di lavoro, essi finiranno col divenire varianti di un unico tipo di rapporto. Quasi a voler parare possibili osservazioni, Giannini affermò anche che nei paesi anglo-americani il corso del tempo ha generato la  “creazione di un corpo di dipendenti pubblici aventi uno stato giuridico privilegiato: il corpo del civil service. E’ opportuno aver chiaro che gli appartenenti al civil service non sono assimilabili ai dipendenti aventi lo status di dipendente pubblico, proprio del nostro sistema positivo...l’esperienza dei paesi angloamericani si è preoccupata essenzialmente dei funzionari direttivi cioè… di coloro che sono destinati a reggere uffici pubblici…la differenza con gli ordinamento del nostro tipo è palese: da noi tutti i dipendenti degli enti pubblici hanno la stato giuridico di dipendente pubblico“.

Questi i due capisaldi  del pensiero di Massimo Severo Giannini sui rapporti di lavoro negli uffici pubblici. Noi, sommessamente, osserviamo sui due punti quanto segue:

a. la descrizione di Giannini sugli aspetti giuridici del pubblico impiego nel nostro Ordinamento sconta un’assenza per noi francamente raggelante: nessun riferimento in quello scritto del 1970 agli articoli 97 e 98 della Carta costituzionale che, riteniamo, avrebbero sicuramente fatto virare il giudizio finale dell’Autore verso altre direzioni: il regime di pubblico impiego trova infatti la sua ragion d’essere proprio in quei principi di imparzialità sanciti dai Padri costituenti;  più che l’argomentare insistito su istituti giudici astratti quali “diritto amministrativo”, “diritto comune” e “provvedimento” , la particolarità del regime del lavoro pubblico andava e va ricercata nel ben più corposo concetto di “interesse generale” che presiede all’azione di Ente pubblico e ne qualifica e distingue radicalmente la natura rispetto ai diversi interessi perseguiti dalle imprese private: la cura dell’interesse generale non solo giustifica, ma impone un diverso status – non solo della dirigenza ma del personale pubblico tutto – che ponga in condizione ed obbligo il dipendente pubblico di operare libero da condizionamenti politici, d’interesse personale e di parte. Per ottenere ciò è necessaria la costruzione di uno status giuridico diverso da quello dei lavoratori privati:  proprio come realizzato dai Paesi anglosassoni.

b. Gli articoli 97 e 98 della Costituzione, ben lungi dall’essere “clausole costrittive” delle sane forze dello sviluppo, furono due fra i tanti regali di menti lungimiranti all’Italia nel momento della fuoriuscita dal fascismo: con i principi lì sanciti, il nostro Ordinamento giuridico si affiancava al regime del pubblico impiego  dei Paesi più avanzati, quali Francia, Inghilterra e U.S.A., che hanno tutti regolato in modo specifico e particolare il rapporto di lavoro dei propri dipendenti pubblici: l’Amministrazione federale U.S.A. in particolare (ricordando anche che quello Stato ha circa 90 anni di vita in più dello Stato italiano) ebbe modo nel corso dell”800 di maturare un grande movimento d’opinione pubblica che fece transitare quel sistema dallo spoils system generalizzato al merit system (vedi qui) , regime giuridico quest’ultimo tuttora in vigore che assomiglia alla tanto vituperata riforma Ranelletti del 1926 molto più di quanto uno si aspetti!!! (vedi qui i 9 principi del Merit System). Ricordiamo, infine, che il “Civil service” federale U.S.A. è costituito “da tutte le posizioni lavorative nelle branche esecutive, giudiziarie e legislative del Governo degli Stati Uniti “(così testualmente la § 2101 del Titolo 5 del Codice delle Leggi federali degli Stati Uniti (vedi qui il testo originale).

Ma la vera questione non era e non è mai stata quella della prevalenza del diritto comune sul diritto amministrativo o simili dissertazioni giuridiche. Il fatto è che un’intera generazione di studiosi generosi e progressisti credette decenni fa che l’omologazione del regime dei dipendenti pubblici a quello privato fosse “il grimaldello per penetrare nella cittadella fortificata del pubblico impiego, cambiandone al fondo la logica giuridica e per innescare così – quasi magicamente direi – circoli virtuosi di innovazione, efficienza ed economicità” (sono parole del Rusciano a pagina 1119 dello scritto qui allegato)…..ecco: “magicamente” scrive letteralmente Rusciano!….bene, a quasi mezzo secolo dall’esposizione di quell’ipotesi, possiamo dire con serenità che il sogno non si è realizzato: la pubblica amministrazione fa ancora enorme fatica a tenere il passo delle nazioni avanzate, costituisce ancora un freno e non un motore di sviluppo, la sua compagine umana non ha ricevuto alcun vero incentivo per migliorare efficienza e qualità dei servizi. Ad aggravare e incancrenire una condizione che era già problematica quando questi autori scrivevano, c’è oggi un assetto dei poteri che ha portato i sindacati confederali da una posizione funzionale di dialettica e tutela degli indifesi a una posizione di cogestione delle Amministrazioni pubbliche: cogestione in alleanza con i vertici politici delle amministrazioni che, contrariamente a tutti i canoni classici di buona amministrazione, hanno imposto attraverso una serie di leggine balorde, un ferreo sistema fiduciario con la dirigenza pubblica, che distrugge qualunque residuo di imparzialità nella gestione degli interessi dei cittadini e delle imprese.

Ciò significa anche che, al di là di qualunque riserva sulla giustezza/adeguatezza/opportunità/necessità/riformabilità del complessivo regime di  privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico (vedi in tal senso le riflessioni di Stefano BattiniSabino CasseseCarlo D’OrtaCarlo Dell’AringaCarlo DeodatoValerio Talamo), la sua introduzione nel nostro Ordinamento giuridico non è stata in grado di vincere quella che Franco CARINCI, uno dei più convinti coautori/difensori della privatizzazione, chiamò “la scommessa di fondo….una riforma destinata a comportare di per sé una maggiore efficienza della pubblica amministrazione, come tale capace di assicurare servizi migliori a costi inferiori“. Ci pare che un quarto di secolo di esperienza concreta sia sufficiente per affermare che la privatizzazione del rapporto del pubblico impiego “di per sé” non è sufficiente a raggiungere gli obiettivi di fondo enunciati al momento della sua introduzione.

E’ tempo di ragionare in modo diverso se vogliamo una pubblica amministrazione diversa e ricominciare a riflettere su altre possibili direttrici di guida. E ci piace immaginare che Massimo Severo Giannini, di fronte alle mille evidenze manifestatesi dopo la sua morte, sarebbe giunto a identiche conclusioni.

Giuseppe Beato

 Massimo Severo Giannini-pubblico-impiego ( teoria e storia). 1970 Enciclopedia del diritto vol XX

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