Guido Melis: una riflessione sulla privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego

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Particolarmente interessante lo scritto di Guido Melis del 2003 –  che qui ripubblichiamo – perché la ricostruzione storica del processo di privatizzazione da lui effettuata  illustra perfettamente il fatto che tutte le idee che sostennero il processo riformatore traevano origine dal pensiero di Massimo Severo Giannini (vedi) ed, in particolare, dall’indimenticato Rapporto sui principali problemi dell’Amministrazione dello Stato dell’anno 1979. L’usuale chiarezza espressiva consente al lettore di comprendere  le origini e le motivazioni profonde che indussero la parte migliore del mondo accademico attento ai problemi della pubblica amministrazione a “smontare” letteralmente l’edificio del regime di pubblico impiego – prima regolato dal diritto amministrativo – per collegare quest’ultimo alle regole comuni   del diritto del lavoro applicate al resto del mondo del lavoro italiano.

L’idea di fondo fu che le regole del diritto amministrativo e un modo di amministrare orientato solo all’ossequio formale della legalità opprimesse l’amministrazione pubblica e la privasse di qualunque possibilità di operare con criteri di efficienza (migliore qualità dei servizi con minori costi). Guidò la pattuglia dei riformatori “l’idea di un diverso assetto istituzionale, non più basato sugli schemi verticistici, gerarchici e piramidali della tradizione amministrativa di matrice ottocentesca (un centro preposto alle periferie; un vertice centrale di governo preposto ai governi locali attraverso la mediazione prefettizia) ma tendenzialmente basato su un nuovo modello, definibile come di tipo reticolare: una rete di istituzioni (centrali e periferiche, senza che ciò costituisse più una scala di valori), intrecciantesi sul territorio e reciprocamente comunicanti. L’approvazione del nuovo Titolo V della Costituzione completò il processo, dandogli sanzione pressoché definitiva“. Melis evidenziava allora l’aspetto più concreto e rilevante di quel generale processo riformatore: ” il ripensamento generale degli apparati dello Stato e l’insieme dei raccordi ed implicazioni tra Stato e regioni e tra Stato, regioni ed enti locali. Venne in pratica definitivamente superato lo schema (per altro già ampiamente contestato sin dagli anni Settanta) della gerarchia tra lo Stato e le autonomie, con valorizzazione di queste ultime e trasferimento ad esse di vaste porzioni di competenze“.

Melis coglieva anche i limiti e i dubbi (“luci e ombre“) che suscitava quel processo riformatore: limiti e dubbi “estrinseci”: a)In Italia, a differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei, il timone della riforma non è stato manovrato né dalla dirigenza amministrativa  – che anzi ha per lo più subìto il processo, partecipandovi marginalmente, né dal Parlamento – che si è in generale tenuto estraneo all’elaborazione e alla definizione delle politiche rifomatrici”;  b)gli ordinamenti francese, tedesco, spagnolo non ignorano rapporti di lavoro di natura privatistica, ma li confinano allo svolgimento di compiti esecutivi ed operativi, comunque al di fuori dell’esercizio del potere pubblico. In Italia insomma si è affermato negli ultimi quindici anni un modello non solo radicalmente nuovo rispetto alla tradizione nazionale ma anche fortemente divaricato rispetto alle esperienze coeve dei principali partners europei“……. e limiti intrinseci. In particolare due:

1) la mancanza di una “una guida stabile all’intero processo riformatore, possibilmente esterna e separata rispetto ai governi che si succedono, sebbene con essi intimamente collegata (una specifica authority?), realizzando sul tema della modernizzazione amministrativa un “patto nazionale” tra le forze politiche e le correnti rappresentative della società civile, chiamate – le une e le altre“;

2) la responsabilità del dirigente, punto chiave di una visione riformata dell’amministrazione, non può che essere assicurata da una disciplina dell’imparzialità soggettiva e di disinteresse (dagli interessi coinvolti nella decisione amministrativa); presuppone, però, un passo indietro nella attuale corsa alla privatizzazione ed un ritorno a quella dicotomia tra impiegati in genere (privatizzati) e funzionari dirigenti (mantenuti nell’area pubblica) che saggiamente il Rapporto Giannini indicava come un limite insuperabile nella contrattualizzazione del rapporto di lavoro con le amministrazioni”.

Dalla relazione di Melis per il Formez del 2003 sono intervenuti importanti eventi istituzionali, quali la successiva “riforma Brunetta” , le misure di austerità imposte dalla gelata iniziata nell’anno 2008 e ancora in corso e, infine, il recentissimo ennesimo restyling del cosiddetto “Testo unico del pubblico impiego” operato dal decreto legislativo n. 75/2017 (vedi qui). Tuttavia, il movimento “pendolare” delle norme che via, via si susseguono negli anni (contraddicendo puntualmente quanto legiferato poco tempo prima) e l’avvitamento continuo intorno agli stessi temi “senza vie d’uscita”, basato sul ribaltamento periodico dei principi di partenza ( si veda nell’ultima pagina di uno scritto di Carlo D’Orta un’illuminante spiegazione di questo movimento pendolare – vedi qui) lasciano intatti il senso e il valore dei dubbi esposti da Guido Melis 15 anni fa. Pur nella convinzione dell’autore che fosse (e sia) necessario spingere “l’acceleratore della contrattualizzazione, liberando il campo dagli istituti e dalle forme talvolta di vero e proprio privilegio che residuano dal vecchio rapporto pubblicistico e puntando ad una assimilazione coerente tra lavoro pubblico e lavoro privato“.

Giuseppe Beato

 Guido Melis: dal-rapporto-Giannini-agli-anni-90

 

 

 

 

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